Per quanto Francesco Di Bella apra il suo primo album da solista, accompagnato dalla band Ballads Cafè, con il brano “Vesto sempre uguale”, e per quanto il testo sia quello profondamente dub ed irriverente da lui cantato qualche anno fa con i 24 grana, non è vero che è rimasto “sempre uguale e non è mai cresciuto”. Anzi, sembra aver preso il volo, abbandonando, nel luglio scorso, il gruppo che aveva fondato e in cui ha creduto fino all’addio. Un bisogno impellente di allontanarsi, quello di Francesco, chiamato per la sua voce “‘u cardill”, il quale in questa sua nuova avventura ha assunto la forza e la sfrontatezza del gabbiano Jonathan Livingston, ritrovando l’ebbrezza del volo in ogni suo testo.

Come dopo un forte temporale, in quest’album troviamo la magia, ancora una volta, la voce e le parole di Francesco, ma scrollate ben bene dalla pioggia, dal superfluo, dai ritmi serrati, e stese ad asciugare nella luce di Napoli. La musica da irriverente si è fatta accattivante, intensa e intima. In tutti gli 11 brani i ritmi scendono, la voce diventa matura e amara, fino a ipnotizzarci e appiccicare alla nostra gola una bellezza greve e tetra (come in Luntano).

Dieci brani rivisitati e un inedito; un arrangiamento quasi spleen per tutti i pezzi. E proprio ai primi versi di “Spleen”, del poeta Charles Baudelaire, potremmo affidarci per descrivere al meglio molte delle sensazioni che restano in testa dopo l’ascolto di questo album: “Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve/Sull’anima gemente in preda a lunghi affanni,/E in un unico cerchio stringendo l’orizzonte/Riversa un giorno nero più triste delle notti”.

Ogni canzone ha sullo sfondo, o forte in primo piano, la bellezza dolciastra e salmastra di Napoli. “Napule se sceta”, si ascolta nell’unico inedito (intitolato proprio Napule se sceta) che trova posto in questo primo album. Una Napoli che strega, ubriaca, lascia soli o con mezzo cuore. Una Napoli che “Te aggarba raccuntandote ‘a bucia ca si nun ce vuò stà te ne può gghì” (Ti inganna raccontandoti la bugia /che se non vuoi starci puoi andartene via). Ma anche una Napoli che rimane l’unica meta e l’unica canzone, come in L’alba (“Si cercasse ind’ a ‘n’ ata città ‘na canzone ca nun trovo cchiù, me perdesse ‘a cchiù bella pecché ccà ce stai tu), che valga davvero la pena di cantare.

Quella partenopea, dunque, resta la sola lingua possibile per sgrovigliare le matasse delle vite difficili di chi è solo o malato e degli sconfitti, di chi ha bisogno di chiudere gli occhi e inventarsi una pace; la sola lingua possibile per aggrovigliarsi in modo sublime alle note e ai pensieri, perché forse, come diceva Troisi, il napoletano non è solo una lingua, ma è un modo di pensare. Se volete viaggiare, ascoltarne i sapori, gli odori e la musica non potete non ascoltare quest’album.

FrankaZappa –ilmegafono.org