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Credo che ci concentriamo molto sulle cose effimere e siamo pronti ad applaudirle, forse perché crediamo che bastino a sperare, a riconciliare, a dissipare gli stereotipi, le battutine becere, quelle che condannano inesorabilmente un territorio immenso come il Meridione, dove la criminalità è minoranza ma si veste da maggioranza disegnando il proprio abito a colpi di piombo e orrore.

Credo che abbiamo l’obbligo di difenderci dalle etichette, dalle generalizzazioni, dalla rappresentazione della realtà come unica e priva di altre facce e letture. Applausi, dunque, al di là dei gusti musicali e del giudizio sulla voce di un artista, ad una canzone che ti dice che c’è anche dell’altro, che ci sono anche giorni buoni, nei quali la bellezza ha il sopravvento e ti toglie per un attimo l’angoscia e la fatica. Quella fatica di resistere, di non andare via, di combattere contro chi sporca fisicamente la tua terra con il sudiciume dei soldi e le complicità infette e recondite, oltre che con il vomito della violenza e l’oscenità della morte. Di combattere anche contro chi, dal Nord impigliato nella rete delle mafie, da quel Settentrione che si pulisce accordandosi con le mafie per sversare rifiuti tossici al Sud, fa lezioni di morale e territorializza il crimine. Ben venga, allora, la speranza, ben venga il canto di amore di un ragazzo che non vuole rassegnarsi all’inferno. 

Ma non commettiamo un errore, il solito errore. Quello che commettono anche in terra padana. Ossia di negare quel che accade, come si fa spesso, o di lasciarsi trasportare dalla speranza di un testo, di una canzone di un ragazzo semplice che vuole sognare un futuro migliore, qualcosa di cui ha pieno diritto, e poi addormentarsi e sentirsi in pace con la coscienza, dimenticando che c’è una realtà che vive fuori dalle canzoni e che quel diritto lo nega ogni giorno.

Perché  mentre le canzoni scorrono, la morte si scatena con un’orrida spettacolarizzazione che è il marchio di una nuova guerra di camorra. Efferata come ogni guerra e forse ancor di più.

Mentre le canzoni cantano, Arnaldo ci ricorda tutto quanto, scrive, racconta, informa. Come faceva Siani, da Giornalista-Giornalista. Grazie a lui ci arrivano le notizie che l’opinione pubblica nazionale non conosce. L’effetto “Gomorra”, grazie a cui i fatti di camorra erano finiti sotto i riflettori quotidiani, si è affievolito, restituendo silenzio e buio. Ombra scura di morte. Arnaldo Capezzuto non si è fermato, non si è arreso, ha continuato a tenere accesa la luce, dando energia alla sua penna.

Ci racconta tutto, ci fa sapere ogni cosa. E lo fa con uno stile che offre quella splendida e rara mescolanza tra giornalismo e letteratura, esattamente ciò che serve per farti “vedere” i fatti, i luoghi, i personaggi. Il dono e il ruolo della scrittura, qualcosa che abbiamo dimenticato. Arnaldo scrive quello che le canzoni non cantano. Lui la speranza la fa sua, ma la confronta con una realtà che tutti abbiamo il dovere di conoscere e non ignorare.

Anche per questo avrei voluto (concedetemi una leggera polemica) che fosse lui a vincere il premio (li avrei dati entrambi, sia quello giovani che quello nazionale) dedicato a Giuseppe Fava, nel trentennale della sua morte. Ritengo che lo meritasse più di tutti, perché questo è il giornalismo che più somiglia a quello dei grandi esempi. 

Leggete questo suo articolo pubblicato oggi: 

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/23/laccento-meglio-nasconderlo-qui-nu-juorno-buono-non-arriva-mai/890860/