Librino è un popoloso quartiere alla periferia di Catania. Progettato all’inizio degli anni ’60, doveva essere il quartiere moderno della città, rappresentare un modello, un gioiello dell’urbanistica contemporanea. Non è mai stato tutto questo, probabilmente non lo sarà mai. La sua fisionomia attuale, incollata come un marchio impresso a fuoco, è quella di un posto dimenticato, di una scatola di cemento che vive separata dal resto. Una condizione che lo accomuna ad altri quartieri periferici di altre grandi città: Palermo, Milano, Napoli. Come tutti, anche Librino ha il suo santuario grigio, il simbolo dell’oblio: il famigerato “palazzo di Cemento”, una torre di 52 metri di altezza realizzata nei primi anni ’80 dal cav. Finocchiaro, uno dei “quattro cavalieri dell’Apocalisse” narrati (o meglio, denunciati) da Pippo Fava. 

Una torre occupata abusivamente per trent’anni, un luogo simbolo della criminalità catanese, centro di spaccio e “area controllata”, feudo difficile anche solo da avvicinare. Lo sa bene Luciano Bruno, giornalista etneo picchiato mentre cercava di fotografare il palazzo per un proprio reportage. Aggredito da sei uomini che gli hanno puntato addosso un’arma e poi lo hanno malmenato, rompendogli un dente. “Nessuno tocchi Luciano” è il coro dentro cui si sono unite le voci di quanti hanno espresso solidarietà a un giornalista che stava facendo il proprio dovere e che da tempo si occupa di raccontare Librino, la sua gente, la sua storia piena di problemi, di difficoltà quotidiane.

Solidarietà. Indiscutibile, necessaria, giusta. Ma questa volta, lo ammetto, imbarazzante. Ho provato più imbarazzo del solito nell’esprimerla e nell’assistere alle altre manifestazioni di solidarietà, ai messaggi, alle parole. La ragione è solo una: perché è tardiva e inutile. Perché gente come Luciano Bruno a Librino opera ogni giorno: c’è chi come lui racconta, scrive, denuncia, c’è chi, come il Centro Iqbal Masih, fa doposcuola ai bambini, tiene laboratori artistici, teatrali, cerca di tenerli impegnati il pomeriggio, proprio lì, sotto il “palazzo di Cemento”, per sottrarli alla strada, alla malavita, alle difficili condizioni familiari.

C’è chi cerca di dar loro delle regole sociali attraverso lo sport, il rugby e una squadra, “I Briganti”, che da anni lotta per non perdere il proprio campo di gioco, l’impianto di San Teodoro, teatro di una lunga serie di errori commessi negli anni dall’ente comunale, con sfratti, cessione al Catania Calcio per una scuola calcio mai avviata e per la costruzione del nuovo stadio, ecc. San Teodoro è il simbolo di quella Librino raggirata che non si arrende al suo destino, un rettangolo di righe e terra che i volontari e gli abitanti della zona hanno ripulito da erbacce e rifiuti, rimettendolo a posto e rendendolo luogo per attività sportive e anche culturali e ricreative. Insomma, Librino non è un quartiere morto.

Come Scampia a Napoli o Brancaccio a Palermo, anche qui ci sono gruppi di volontari e cittadini che si sbracciano, che lottano non solo contro il cemento, la miseria, l’oppressione della criminalità organizzata, ma anche e soprattutto contro l’isolamento, la ghettizzazione di cui è responsabile la storia politica e istituzionale degli ultimi cinquant’anni. Mai un aiuto a chi volontariamente prova a costruire un futuro migliore, anzi al contrario una marea di ostacoli, ingiustizie, ottusità burocratiche e politiche. Mai un’azione sinergica finalizzata al ripristino della legalità nell’area, il cui controllo è stato lasciato totalmente nelle mani di chi ha reso famigerato il quartiere, eleggendo a simbolo una torre gigantesca, visibile, totem di un potere che si bea dinnanzi all’orrore che si impone alla vista e incute paura.

E se qualcuno paura non ne ha e alza lo sguardo, allora gli si punta un’arma addosso e gli si rompe un dente. È la storia degli inferni alle periferie delle città, inferni creati dallo Stato, spogliati della loro apparente normalità e visibili in tutta la loro bruttezza e violenza per essere gemelli della feccia che li erge a simbolo del proprio potere. Inferni nei quali la bellezza riesce però comunque a infilarsi, lentamente, con sacrifici immensi, senza mai un sostegno, tra mille ostacoli e beffe snervanti. Succede sempre così. Anche a Librino, così come a San Cristoforo, altro quartiere complicato nel cuore della città, dove l’Experia, centro sociale che svolgeva un ruolo fondamentale per i giovani, nel 2009 venne sgomberato e chiuso, alla faccia dei volontari e del loro duro lavoro, mentre la mafia ringraziava per la perfetta convergenza tra i propri interessi, la propria sottocultura e l’operazione di sgombero attuata dal Comune.

Una storia amara, che ha il sapore di un’Italia che non ha voglia di andare oltre. Ecco perché la solidarietà a Luciano Bruno è imbarazzante, così come le tante parole apparse in questi giorni sulla Librino condannata senza appello sin dal suo nascere, senza che si facesse menzione del lavoro svolto quotidianamente da persone la cui voce è rimasta spesso inascoltata, finendo persino per essere considerata fastidiosa e scocciante. Allora non fermiamoci alla solidarietà sterile, cominciamo a raccontare, in tanti, quello che manca nei quartieri ghetto delle città italiane, da nord a sud. Bisogna costringere i responsabili a non nascondersi più, facendo in modo che non possano più dire “io non lo sapevo”. Bisogna farlo tutti insieme partendo da Catania. Da Luciano Bruno, da Piero Mancuso dei Briganti e dal Centro Iqbal Masih. Partiamo da Librino. Da quella parte meravigliosa che non si arrende.

Massimiliano Perna –il megafono.org