Quando in redazione ho ricevuto l’invito, dal teatro della Cooperativa di Milano, per andare ad assistere alla prima dello spettacolo “Nel nome del padre”, in scena dal 29 ottobre al 3 novembre scorso, ho pensato che i tuoi esempi, alla fine, in qualche modo e forma li incontri sempre, come se ti seguissero da lontano e si facessero trovare anche quando non te lo aspetti. Così, anche qui a Milano, lontano da quella città e provincia in cui sono cresciuto, lontano da Palazzolo Acreide, la sua città natale, ritrovo qualcosa che parla di lui, di Giuseppe Fava, uno dei più grandi giornalisti e intellettuali italiani, uno di quelli che rendeva libero il pensiero e lo connetteva alla libertà di azione, un’azione volta alla conquista della verità, alla sua rivelazione in un mondo pieno di segreti e affari sommersi. Uno di quegli intellettuali che sapeva parlare al futuro, capace di visioni profetiche, di indicazioni dispensate a un’opinione pubblica distratta, forse anche un po’ snob verso quel siciliano dallo sguardo intelligente e profondo, dalla schiena dritta e dalle parole chiare.

“Nel nome del padre” è un monologo tratto dall’omonimo libro di Claudio Fava, figlio del giornalista, ed è portato sul palco dal bravissimo Roberto Citran, sotto la regia di Ninni Bruschetta. Un intenso e rabbioso racconto che attraversa il tratto più intimo del rapporto tra un padre eccezionale, idealista, sognatore e un figlio che ne ha accompagnato da vicino esperienze, idee, sogni che avevano il nome di un giornale, “I Siciliani”, che era un esperimento riuscito di giornalismo vero, con un’etica ben precisa.

Un racconto che poi di colpo si ritrova dentro al dolore di una realtà atroce, dove la fine violenta di quel padre speciale, ucciso per mano mafiosa, si mischia all’inizio di una odiosa vicenda fatta di depistaggi, mistificazioni, tentativi istituzionali e mediatici di infangarne la memoria, di allontanare il più possibile l’idea che Pippo Fava fosse stato ammazzato dalla mafia. In una Catania nella quale i magistrati e le forze dell’ordine puntavano i fari delle indagini sulla vita privata del giornalista e della sua famiglia, sugli amici, sulla situazione economica del giornale. In questo erano coadiuvati da tutti quei colleghi a cui Fava risultava scomodo perché non si adeguava, perché era più bravo, più preparato di loro, non disposto a farsi comprare e a tacere. Una Catania nella quale i cavalieri del lavoro, di cui egli scriveva apertamente, erano i protagonisti degli affari sporchi, sotto la direzione del padrone della città (e non solo), quel Nitto Santapaola da cui tutto passava e che tutto stabiliva. E che riceveva rispetto da buona parte dei catanesi. Gli stessi che hanno creduto a chi sui giornali locali scriveva falsità, paventava storie di passioni clandestine o di debiti.

C’è la rabbia, ben narrata sul palcoscenico da Citran, che è bravissimo a replicare la fisionomia indignata e scocciata di Claudio Fava, quella maniera ferma, dura ma composta che ce lo ha fatto conoscere nel corso della sua esperienza politica e letteraria. Mancano i nomi e i cognomi. Quelli dei protagonisti negativi della fase successiva al 5 gennaio del 1984, giorno dell’assassinio di Pippo Fava. Mancano i nomi dell’allora sindaco e dell’allora prefetto, del procuratore, dei colleghi assenti ai funerali, dei mistificatori e calunniatori per mezzo stampa, dell’editore che ancora oggi nasconde la verità, nonostante i processi e le condanne, e anche quelli dei politici che difendevano i cavalieri del lavoro. E soprattutto mancano i nomi e i cognomi proprio di quei “quattro cavalieri dell’Apocalisse”, come li definì Fava in un suo memorabile articolo (leggilo qui) scritto un anno prima di essere ucciso.

Una scelta che sicuramente è da spiegarsi con il carattere intimo del monologo, in quel dialogo diretto del figlio con il padre, che oltrepassa la vicenda nota al pubblico, che scava nei ricordi, nei momenti privati, nell’interiorità di un’esistenza cambiata all’improvviso e obbligata ad una lotta pesante, che costerà anche due tentativi di agguato (subiti da Claudio Fava) andati a vuoto per miracolo, per puro caso. Un dialogo che non vuole dare spazio ai nomi dei miserabili assassini e dei loro complici, perché sono ormai quasi superflui rispetto al mosaico orribile che hanno messo insieme. E soprattutto perché non meritano di entrare in quel dialogo, in quel rapporto che va al di là di tutto e tutti, perché è essenzialmente umano, viscerale, di cuore, viene prima del corso della storia, della sofferenza, della rabbia. Almeno è questo quello che pensi quando senti la parola “cavaliere” o “sindaco”, senza che segua almeno un cognome.

Una scelta legittima, che nulla toglie alla narrazione, né sul piano dell’intensità né su quello dell’indignazione per un Paese che non ha mai saputo difendere i suoi figli più meritevoli, non solo in vita ma molto spesso nemmeno dopo la morte, neanche nell’immediatezza del dopo, quando familiari e amici piangono e la strada ulula ancora la tragedia, molto prima che diventi una questione di memoria collettiva. Però, forse, in una città lontana da Palazzolo Acreide, da Catania, da Siracusa, sarebbe stato più giusto farli quei nomi, perché questa nazione Pippo Fava non lo conosce davvero. Non ne conosce il valore, l’eclettismo culturale, lo spessore intellettuale. Nel migliore dei casi, pensa che sia morto solo un siciliano, un giornalista che come altri al Sud è stato ucciso perché parlava troppo e aveva il coraggio di denunciare apertamente in un periodo in cui questo equivaleva a condannarsi a morte certa.

Non è mia intenzione discriminare tra uomini coraggiosi, ma Pippo Fava era qualcosa di raro. Era come Pasolini, era una voce di una nazione intera, l’intellettuale poliedrico che aveva capito, compreso il tempo e intravisto il suo sviluppo futuro. Lo abbiamo perso ed è stata una perdita la cui proporzione è sconosciuta ai più. Spettacoli come “Nel nome del padre” consentono in parte di accorgersi di questa dimensione. E in questo è perfetta e azzeccata l’apertura con un estratto dell’ultima intervista del giornalista siciliano, rilasciata ad Enzo Biagi, nella trasmissione “Film Story”, il 28 dicembre 1983, otto giorni prima di essere assassinato. Una intervista nella quale emerge tutta la straordinaria attualità delle parole e del ragionamento che Fava offre al suo interlocutore, con un quadro preciso e ben delineato della mafia, dei suoi rapporti con la politica, dei livelli superiori che sono i veri nemici da combattere per liberare il Paese.

Vi consiglio, se non lo avete ancora fatto e non conoscete bene la storia di questo grande uomo, di guardare ed ascoltare con attenzione l’intervista (prima parte e seconda parte), di andare a vedere, se capita dalle vostre parti, il monologo teatrale tratto dal testo di Claudio Fava, e di leggere i libri e gli scritti di Pippo Fava, informarvi, saperne di più. Perché potreste trovare un esempio vitale, che vi assicuro incontrerete in mille circostanze della vostra vita, quando una decisione giusta, una decisiva scelta di parte, può essere stimolata anche dall’aver letto e conosciuto certe storie e certe parole di libertà.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org