Filippo Facci, in un tagliente articolo uscito su Libero, il 22 ottobre scorso, titola “Facci: altro che proteste, i giovani sono una casta” (leggi qui). Nel pezzo si legge: “Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che ‘gli stanno rubando il futuro’”. Le parole di Facci suonano dirette e provocatorie. Un modo di parlare di noi che ci perseguita da quasi un decennio. Diretto e provocatorio come quello con cui una volta un pubblico ufficiale si rivolse a me (dovere di cronaca, aggiunge poco al discorso) nell’aula magna del mio liceo. Parlava delle banlieue, con toni estremamente polemici contro gli autori delle devastazioni cittadine.

Alla mia domanda se non fosse il caso di considerare anche la situazione sociale nella quale si trovavano quei ragazzi, mi fu risposto: “Non c’entra nulla: quando prendi 3 a una versione di greco – e guardandoti mi sembra più che plausibile – non puoi certo dare fuoco al registro di classe!”. Al di là della mia più che “trascurabile persona” e della figura meschina che fece l’ospite del liceo, l’episodio è paradigmatico dell’atteggiamento con cui ci si rivolge alle domande, alle opposizioni, alle manifestazioni di dissenso, soprattutto se a muoverle sono “giovani”, con tutti gli stereotipi che la vostra esperienza riesce a tirar fuori.

Facci definisce gli studenti una casta (senza fare una grande distinzione se non quella operata con l’accetta e sopra riportata, neppure menzionata nel titolo sin troppo vago), perché “lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano – allo stesso Stato – una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza”.  Fa piacere che lo studio sia ancora inteso come privilegio, un bel passo avanti  (astenersi dal seguito ultraliberisti) nelle conquiste sociali. La casta, secondo la definizione del Devoto-Oli, è una “classe o ordine di persone che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri, e gode o si attribuisce speciali diritti o privilegi”.

Anche volendo sposare l’idea di Gian Antonio Stella al riguardo, il termine è usato assolutamente fuori luogo. Le caste hanno potere di influenza e quella che Facci definisce tale non ne ha affatto, per definizione. Er pelliccia e simili hanno un privilegio? No, hanno un diritto sacrosanto, quello allo studio, e hanno dei doveri, in quanto cittadini: se non li rispettano vengono puniti. Se poi si pensa che i giovani e gli studenti siano tutti con le maschere di V per vendetta a spaccare i bancomat di Intesa San Paolo, beh, allora si può tornare in ascensore e proseguire la conversazione col condomino di turno. Sparare a zero su tutti (perché non c’è distinzione nel pezzo) è facile e non risolve il problema, posto che si voglia farlo. Bisognerebbe chiedersi a livello mondiale, nelle famigerate università estere, come sono gli esami, come è il metodo di studio e rendersi conto che i nostri studenti (quelli validi, senza bisogno di essere dei geni), appesantiti dal nostrano nozionismo, una volta di là dai vari oceani sbaragliano la concorrenza, anche europea.

E bisognerebbe anche farsi delle domande sui programmi dei nostri corsi universitari, confrontarli con l’estero e capire perché, esperienza personale, by definition in un’università X (tra le prime 5 del suo continente) il corso y non sarà superato dal 3% della classe. Non tutti quelli che non fanno un esame sufficiente, attenzione, ma solo il 3% peggiore. Poi chiediamoci del perché la media della migliore università pubblica italiana supera i 24 anni. Meglio? Peggio? Ai provocatori un invito a rispondere e a riflettere. Poi, beninteso, Facci rileva dei problemi concreti come quello di tanti giovani “parcheggiati” (virgolettato mio) nelle Università. La mela, però, non cade lontano dall’albero: si abbia almeno il coraggio di ammettere i propri errori.

Nel caso rientrassimo tutti nelle spese inutili, allora spero che molti coetanei convengano con me nell’andare, tutti, a quel paese liberandovi di una casta, facendovi risparmiare qualche spesa inutile e facendo definitivamente affossare le graduatorie internazionali degli atenei, lasciando dei meravigliosi quarantenni nullafacenti nel settore produttivo in modo da lasciarvi riposare in pace la domenica dopo pranzo. Se, secondo Facci, i sessantottini ci hanno rovinato, sarà bene che si interroghino sul tema quelli nati dopo e che non hanno fatto nulla, se non godersi il decadentismo dei favolosi 80’s.

Ad ogni modo, non c’è bisogno di ulteriori cattivi maestri che fomentino l’odio generazionale anche dalla parte degli stempiati e dei capelli bianchi. Ci siamo, prosaicamente, rotti i cosiddetti di chi ci dice cosa fare senza mai e poi mai essersi messo nei panni di un universitario. L’unico che l’ha capito è Severgnini, che solleva alcuni dei problemi rilevati da Facci ma senza il dito puntato e con maggiore accuratezza, nel suo libro “Italiani di domani. 8 porte sul futuro”. Grazie però a Filippo Facci che permette di fare chiarezza sull’ipocrisia che ci circonda. Ha quantomeno il pregio dell’onestà intellettuale. Che è una merce rara.

Penna Bianca  –ilmegafono.org