Ha lo sguardo sicuro tipico di quei siciliani che non si arrendono. Un uomo che ha sempre vissuto del suo lavoro, seguendo l’esempio di un padre che lo ha abituato a non chiedere favori a nessuno, a tenere sempre la schiena dritta. Un padre che, quando passava per il centro del paesino, Bivona, quattromila anime stanziate sui monti Sicani, in provincia di Agrigento, e incontrava i “picciotti”, quelli che tutti riverivano, li apostrofava ad alta voce (“Pezzi di m….”), suscitando la curiosità del figlio che gli camminava accanto. Un figlio che oggi continua a urlare quell’insulto, vero e sentito, in faccia a chi cerca di distruggere il suo lavoro, la sua azienda, i sacrifici di una vita. Quell’uomo, quel figlio che adesso è a sua volta padre e sa come dare l’esempio, si chiama Ignazio Cutrò. Testimone di giustizia. Vale a dire, qualcuno che ha deciso di denunciare quel che ha subito o di dire quel che sa. Persone che la mafia l’hanno incontrata loro malgrado e che, a un certo punto, hanno deciso di sfidarla, di combatterla.

Per molto tempo questa figura è stata confusa con un’altra, che rientra nel campo della lotta giudiziaria e processuale alla criminalità organizzata: il collaboratore di giustizia, volgarmente noto con il termine di “pentito”. Una confusione assurda e ingiusta, perché il collaboratore di giustizia non è qualcuno che si è trovato, contro la propria volontà, sotto l’oppressione mafiosa; al contrario, è un appartenente, integro al sistema criminale, parte di quell’oppressione, il quale, per le ragioni più svariate (dalla convenienza al vero e proprio ravvedimento), decide di raccontare quel che sa, per aiutare lo Stato a smascherare gli intrecci, le complicità, le facce, le responsabilità dei clan. C’è voluta una legge, la 45 del 2001, per dividere le due figure, fino a quel momento confuse.

Ignazio Cutrò, però, è un uomo in lotta, non si accontenta, non si ferma alle forme, alle parole fredde di una legge che poi non entra nello specifico di quelle che sono le condizioni di vita quotidiane dei testimoni di giustizia e delle loro famiglie. Anzi, ne sottolinea le storture, i paradossi. Ad esempio, nel corso degli incontri che sta svolgendo in giro per l’Italia, racconta una cosa che suscita sorpresa nelle facce di chi lo ascolta: i testimoni di giustizia non possono parlarsi o incontrarsi tra loro privatamente, pena l’uscita dal programma di protezione. In questo non vi è differenza con quanto previsto anche per i collaboratori di giustizia.

Ignazio, con il sorriso, rivela di aver oltrepassato questo principio, contattando gli altri testimoni e fondando l’Associazione Nazionale Testimoni di Giustizia, di cui è il presidente. Una rivoluzione vera e propria in un ambito che la maggior parte del Paese ignora, non riuscendo a immaginarne i contorni, le problematiche concrete. Lo dice esprimendo grande fierezza, così come rivendica con orgoglio di non aver cambiato nome e identità e di aver fatto e mantenuto il suo passaporto. E, soprattutto, di vivere ancora in Sicilia, nella sua terra, quella dove è nato e cresciuto, quella di suo padre, ma anche dei suoi nemici, di quei Panepinto il cui rampollo, Luigi, da bambino, divideva con lui i pomeriggi di gioco.

Una storia come tante, in Sicilia e non solo: due bambini che crescono insieme ma che poi prendono strade completamente diverse, fino a incrociarsi sui due punti opposti della barricata, l’uno a lavorare e difendere la propria libertà, l’altro a cercare di strappargliela, a colpi di incendi ripetuti, danneggiamenti vari, minacce insopportabili. Dall’incendio del primo escavatore, nell’ottobre del 1999, durante il quale il padre si lanciò con estintore in mano a domare le fiamme, mettendo a rischio la propria vita, Cutrò ha iniziato la sua azione di denuncia, che, dopo anni di battaglie fatte e attentati subiti, ha portato poi all’operazione “Face Off”, con l’arresto di numerose persone tra le quali i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto.

Proprio in questi giorni, la loro condanna è divenuta definitiva. Una vittoria per Ignazio e per la giustizia. Una vittoria anche per Salvatore Vella, pm di questo processo, oggi isolato e senza scorta (firma la petizione cliccando qui).

Oggi Ignazio continua la sua lotta, difendendosi da chi non dimentica e vorrebbe fargliela pagare, ma anche portando avanti la causa dei testimoni di giustizia, che questo Paese deve ancora imparare a conoscere. Inoltre, è recentemente entrato in un gruppo ristretto di persone, un comitato, voluto dal Comune di Busto Arsizio, che si occuperà di prevenzione e di individuazione dei rischi di infiltrazione di tipo mafioso nel territorio della cittadina lombarda. Ovviamente, continuerà il suo giro d’Italia, per raccontare la sua storia.

Se dovesse capitare dalle vostre parti, andate ad ascoltare cosa ha da dire. Perché la sua esperienza è un bene collettivo, un patrimonio comune, soprattutto è di grande utilità, visto che quello che è accaduto a Ignazio potrebbe accadere a ciascuno di noi. E non solo al Sud.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org