L’aula vuota di Montecitorio per la ratifica della Convenzione di Istanbul (leggi il testo qui), il servizio del TG2 su Franca Rame in cui si riporta il pensiero di chi la vedeva come “come la pasionaria rossa che approfittava della propria bellezza fisica per imporre attenzione, finché il 9 marzo del 1973 fu sequestrata e stuprata…ci vollero 25 anni per scoprire i nomi degli aggressori”  e il filoso grillino Paolo Becchi che, rintuzzato a “La Zanzara”, non perde l’occasione per una volgarizzazione di problemi. Tre episodi che si descrivono e si completano nel descrivere un quadro allarmante. Che si tratti o meno di femminicidio (ovvero come dato provato di un aumento di crimini contro le donne), il problema, come sempre, è a monte e si chiama disinteresse.

È una malattia, un cancro, come l’illegalità. Il concetto, l’idea che tutto alla fine sia normale emerge, serpeggia, raccoglie un mezzo assenso, una scrollata di spalle e tutto finisce nel cimitero delle mezze stagioni. Il “che sarà mai” è un’espressione tipicamente nostra. Noi che abbiamo bisogno del “severamente”, accanto ai divieti, perché la negazione, sola, non basta. Che sarà mai. E così il disinteresse, “tanto ci penserà qualcun altro”, l’odioso “abbiamo altre priorità”. Cretinate. Soprattutto su un argomento delicato come quello della violenza sulle donne. Delicato al cubo in tempo di crisi, quando tutto “vale”, letteralmente, meno. Anche la vita.

Siamo sensibili, siamo irritati, la pelle viva è scoperta, la scorza violata. Bisogna misurare le parole e i gesti perché la malattia non prenda il sopravvento. Il problema, poi, c’è. Al di là dei numeri e al di là delle vittime è la violenza stessa, compresa quella verbale, da fermare. Frocio fa male esattamente come fissare ossessivamente il fisico della ragazza che ti sta di fronte e che non conosci. Siamo vittime e complici del machismo segaiolo che ci hanno insegnato all’accademia del Bagaglino e sui giornali di gossip. A monte c’è qualcosa di più profondo che ci impedisce di vivere l’amore e apprezzare la bellezza. E allora un vestito diventa “mettersi in mostra”, una mezza parola vale l’insulto e via con la sagra del cazzoquantoèbonaquella (senza riferimenti regionali).

Jacopo Fo ha descritto nel 2008 con parole bellissime la nostra malattia in riferimento a una scritta schifosa comparsa al Liceo Mamiani di Roma: “E mi chiedo di che dimensioni sia il deserto interiore di questo maschio rampante, e quanta paura debba avere di non essere all’altezza di un vero incontro d’amore e di passione. Forse se entrasse nelle scuole una buona educazione al sesso e ai sentimenti questo vuoto esistenziale potrebbe essere colmato nelle generazioni future. La malattia dell’Italia non è solo politica, è morale, filosofica e sentimentale. Molti non sanno neppure cosa siano i sentimenti. Vivono tenendo carcerate le loro emozioni. (…) Io non credo che l’Italia cambierà seguendo chi è bravissimo a denunciare la corruzione e la violenza del capitalismo ma si dimentica di parlare di amore, amicizia, tenerezza, sesso, parto dolce, sentimenti, emozioni, ascolto di sé, educazione non autoritaria, scuola comica, arte, valore della vita, necessità di dare un senso anche alla morte”.

Possibile che per inculcarci un po’ di rispetto debbano metterci sempre un divieto accompagnato da un “severamente”?  

Penna Bianca –ilmegafono.org