Non mi abituerò mai. Ogni volta lo stesso pugno allo stomaco, gli occhi che sudano rabbia sotto forma di lacrime. E non può che essere un bene, non abituarsi mai. La memoria è fatta anche (o soprattutto) di questa assoluta imprevedibilità emotiva, dell’incapacità di abituarsi all’emozione e di sopire le sensazioni sotto la coperta accogliente del tempo, dentro il frigorifero della vita quotidiana e delle ricorrenze che rischiano di assumere i contorni di una annoiata consuetudine oppure quelli ipocriti dell’impegno celebrativo che si esaurisce dieci minuti dopo la conclusione del rito. Per fortuna, in questa Italia, non ci sono solo i fedeli abusivi di una messa domenicale, quelli che conoscono a memoria le preghiere e le recitano sentendosi protagonisti di un momento, senza mai comprendere appieno il messaggio che contengono, quello che, fuori dal tempio, bisognerebbe seguire ogni giorno, nelle strade dissestate della miseria e della povertà, dei diritti negati e dell’ingiustizia.

Per fortuna, in Italia ci sono anche quelli che le ricorrenze le vivono come momento di memoria e al contempo come testimonianza di una lotta giornaliera, continua, nelle scuole, nelle piazze, nel proprio luogo di lavoro, dentro alle scelte di dignità, moralità, consumo critico, denuncia, solidarietà tangibile, rifiuto della clientela, dei favoritismi, delle sopraffazioni. In Italia, ci sono loro, ci siamo anche noi, quelli che non si abituano mai. Un anno dopo così come ventuno anni dopo. La voragine di Stato dentro cui è precipitata la parte migliore di quello Stato deve essere ancora ricoperta, lo squarcio sulla pelle e sul futuro di un Paese che ha bisogno di verità non è ancora stato sanato. La ferita è viva e la cicatrizzazione è lontana.

Nonostante le cose siano comunque cambiate, perché una reazione c’è stata, c’è stata una società civile che ha cominciato a marciare, sotto il bianco delle lenzuola comparse a Palermo, e ha percorso distanze lunghissime, chilometri su chilometri, attraversando le vene di una nazione spaventata e stordita, inquinata da chi avrebbe voluto proclamarvi la dittatura del silenzio, dell’indifferenza. Non solo i magistrati e le forze di polizia, ma donne e uomini comuni, cittadini, insegnanti, sacerdoti, giornalisti, studenti, individui liberi che di quella libertà ne hanno fatto una questione vitale, per il suo stretto legame con la dignità. Grazie a tutti loro, singolarmente e nelle associazioni che hanno fondato, oggi chi combatte sul campo è meno solo e può cercare di spingersi oltre, fino alla scoperta di quel maledetto terzo livello che è ancora al comando e governa le sorti di questo Paese.

Un Paese che ha finalmente compreso che non esistono zone franche, né luoghi privi di controllo mafioso. Il Nord, lo stesso che credeva che la mafia fosse una questione meridionale, ha conosciuto sulla sua pelle la realtà di un tessuto inquinato, complice, connivente, corrotto e terribilmente omertoso. Ha scoperto di essere anni indietro rispetto al Sud, a quella grande presa di coscienza che è divenuta esperienza di battaglie durissime, fatte di martiri e di muri di gomma, di conquiste, di terribili delusioni e di speranze rinnovate.

Così, oggi, a un siciliano come me accade per la seconda volta consecutiva di celebrare la memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani nel cuore di una Milano eccezionalmente ventosa, lontana chilometri ma vicina nel cuore a chi, nello stesso momento, a Capaci, a Palermo viveva la stessa rabbia e la stessa emozione nel ricordare (personalmente anche Giuseppe Costanza, sopravvissuto miracolosamente alla strage e praticamente dimenticato da quasi tutti).

Ci scopriamo uniti, dalla Madonnina al monte Pellegrino, dai giardini Falcone e Borsellino, che sono a due passi da una delle strade più note e centrali di Milano, alla stele che commemora la strage del 23 maggio 1992 sull’autostrada all’altezza di Capaci. A un siciliano che ama la propria terra e ha sofferto con essa, anche a distanza, sotto il cielo di Milano capita di tremare, quando alle 17.58, i vigili del fuoco fanno suonare le sirene rievocando tragicamente quel momento. E capita anche di non riuscire a trattenere le lacrime quando un bravissimo trombettista intona le note del Silenzio, profonde e tristi, capaci di prenderti l’anima e farti ascoltare i quintali di rabbia per quella terra ferita, per quel sangue sparso, per l’ipocrisia dei complici, gli stessi che oggi fingono di commemorare, recitando con il volto tirato di un maschera che sotto nasconde la soddisfatta certezza che coloro che erano vivi e stavano scovando la verità oggi sono davvero morti e non torneranno più.

A Milano, questo 23 maggio, ho sentito i ragazzi dei licei di questa città lontana dalla mia adolescenza leggere parole bellissime, vere, piccoli fiammiferi che insieme potrebbero diventare luce, azione, incendio civile nel profondo Nord. Per un attimo ho perso le forze dentro quella speranza, sono stato male pensando che il loro contraltare, il loro freno è rappresentato da una politica compromessa, incollata dal fango della autodifesa, dal letame con cui nutre la propria sopravvivenza, sporcata dai vecchi protagonisti, dagli uomini che trattarono con la mafia, dagli indagati, dai condannati.

Ho pensato a Dell’Utri, a Berlusconi, al “Mangano è un eroe”, a Nitto Palma che va a trovare in carcere Nicola Cosentino, alla proposta di legge avanzata qualche giorno fa dal senatore del Pdl, Guido Compagna, che chiede la riduzione della pena per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ai proiettili con busta recapitati alla Boccassini, all’isolamento a cui è stato lasciato Nino Di Matteo, a Giorgio Napolitano che non difende la Procura di Palermo e alle intercettazioni distrutte. Alla trattativa con cui lo Stato ha sancito la morte di Falcone e Borsellino. Delusione e rabbia, da un lato. Speranza, la solita cocciuta speranza, dall’altro.

Era surreale il cielo sopra Milano, giovedì pomeriggio, in mezzo a quelle emozioni a cui non ti abitui mai. Piene di dolore e al contempo di astratto ottimismo. Da questo dissidio mi ha salvato (e non lo sa) uno degli studenti intervenuti, pronunciando queste parole: “Voi adulti vedete il bicchiere o mezzo vuoto o mezzo pieno. Noi quel bicchiere dobbiamo ancora riempirlo”. Non riesco a trovare parole migliori per concludere questa riflessione e per descrivere l’invincibilità della speranza che si attacca al domani. Nonostante tutto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org