L’eco del dramma di Civitanova risuona ancora nelle giornate di molti di noi, come una melodia dal ritmo inesorabilmente costante che evidenzia la stonatura di chi continua a rimanere indifferente, tentennando o giocando a fare il duro e puro, il “non responsabile”. Mentre il Paese rimane fermo, in stand-by, imprigionato dentro un’attesa che logora, corrode, distrugge, ci sono spazi di rassegnazione e ombra che si dilatano e mostri che camminano, riprendendo forza e velocità. Si nutrono di instabilità, sorridono con maliziosa soddisfazione davanti alle esasperazioni della politica, ai conflitti, ai dissidi tra i tanti protagonisti, si tuffano dentro l’immobilità, sguazzando tra le maree viscose di uno stallo istituzionale che somiglia più all’agonia di un intero pezzo di storia. Non sono i drammi individuali, che producono conseguenze principalmente su chi li vive. Sono mostri organizzati, chi meglio chi peggio, che sentono l’odore di una preda succulenta in difficoltà, ferita e indebolita, lenta e claudicante.

Si sono svegliati dall’assopimento, perché dal caos hanno imparato a trarre il meglio, ricontrattare tutto quel che è possibile cercando di alzare il prezzo delle proprie richieste e inserire nuove clausole. Non amano discutere troppo, non parteggiano per la negoziazione diplomatica. I loro rappresentanti non sono abili commerciali, avvocati o notai con la penna in mano, ma individui che maneggiano con il tritolo, gli inneschi e i detonatori. Sono tornati, ma in fondo non se n’erano mai andati. Crisi e caos, in un’Italia orfana di governo e con il suo rappresentante più in alto a fine mandato e protagonista di imbarazzanti querelle con altri esponenti istituzionali: ingredienti perfetti per chi vuole alzare la tensione, creare la paura, far crescere il senso di insicurezza che scatena gli istinti peggiori di un popolo che non sa distinguere, non sa comprendere e che, in parte, chiede solo di passare da un padrone ad un altro, scegliendo chi urla di più o chi sa comunicare meglio.

Non è ancora accaduto nulla. Non abbiamo sentito, per fortuna, boati, né il suono sinistro delle sirene che attraversano il centro delle nostre città. Eppure il fragore delle esplosioni lo avvertiamo dentro le nostre angosce, lo temiamo, ci dà i brividi. La lettera bomba a La Stampa è un segnale terribile. Si cerca di colpire un organo di informazione con un ordigno che per pura fortuna non è esploso. E che se lo avesse fatto avrebbe colpito un lavoratore, come ha saggiamente scritto sul giornale torinese, il giorno dopo, Massimo Gramellini: “Se il pacco bomba fosse esploso, non avrebbe colpito il Sistema o la Casta. Avrebbe colpito Gianpaolo, un grande brav’uomo con due figli, una moglie e un mutuo, che da oltre vent’anni si alza alle cinque del mattino per andare a lavorare”.

Ma a loro non interessa. Loro vogliono il caos e non importa se le vittime sono le stesse che magari detestano quel sistema a cui sono destinate le bombe. È sempre stato così. Si lascia credere di voler assalire il sistema per liberare tutti, ma in realtà si combatte contro il popolo e non per il popolo. Lo stesso che avviene anche con Equitalia e con i tanti casi di minacce, aggressioni o attentati alle loro sedi. Si combatte un sistema marcio come quello della riscossione tributi in Italia, ma lo si fa colpendo i semplici lavoratori, gente comune che fa il proprio lavoro per uno stipendio normale, senza tutele. Come pretendere distinzioni in un Paese nel quale ogni giorno c’è chi gioca ad accomunare, massificare, etichettare, infilare tutti i “nemici” identificati in un unico barile fatiscente?

E questo è niente. Perché poi ci sono le forze che puntano più in alto. Quelle che nella crisi aumentano i propri introiti e il proprio giro d’affari, che se ne infischiano delle etichette perché non hanno bisogno di queste per sapere chi e cosa colpire. Soprattutto sanno quando farlo. Così, in una delle fasi peggiori della storia repubblicana, senza un governo, con un cambio ormai prossimo al Quirinale, con un distacco siderale tra i cittadini e la politica tradizionale, con una democrazia sempre più debole e minacciata da un cambiamento ibrido e confuso, si pensa di alzare il tiro ancora una volta, per aggiornare le pagine di quella trattativa maledetta che ha percorso tragicamente questi ultimi ventuno anni. La mafia torna a minacciare, a progettare l’eliminazione di uno dei servitori dello Stato più fedeli, uno dei più coraggiosi, forse il più isolato. Nino Di Matteo, pm palermitano, è nel mirino.

Nessuna istituzione, a partire da Csm (che invece ha aperto un discutibile procedimento nei suoi confronti),  Quirinale e  presidente del Senato, si è messo a far muro o scudo attorno a lui, per proteggerlo. Convergenze, odiose convergenze che hanno il volto oscurato del segreto indecifrabile, o quasi. Con la conferma di un odioso principio, che in Italia conosciamo bene: se tocchi il potere e cerchi di svelarne gli intrighi più indecorosi, rischi come minimo di trovarti da solo e in pericolo. Se sei fortunato puoi continuare a vivere combattendo contro i mulini a vento o facendo tutt’altro. Sempre che te ne diano la possibilità.

Il silenzio e l’isolamento sono i terreni dentro i quali si coltiva il rumore delle bombe. Il caos sociale e l’inerzia della politica sono i fertilizzanti più efficaci. Di questo, tutte le forze politiche in ballo, nessuna esclusa (seppur con differenti gradazioni), sono pienamente responsabili. Bomba o (speriamo) non bomba.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org