In mezzo al caos delle notizie piene, principalmente, di scaramucce elettorali, scandali e fughe desolanti, è accaduto un fatto grave che merita maggiore attenzione. Tutto nasce da un fatto di cronaca, dall’ennesimo “atto di punizione finale” da parte di un uomo nei confronti di una donna; si tratta di quello che ormai, con un linguaggio tristemente ripetitivo e scarno, viene definito “femminicidio”. Un bollettino di guerra quotidiano che ci offre nomi, volti, storie terribili di possesso, vigliaccheria, violenza. Una guerra che sembra infinita. Teatro dell’orrore, questa volta, è Bernareggio (MB), piccolo comune della Brianza, dove una donna è stata accoltellata in casa dal suo ex marito. Un’altra tragedia, una storia troppo simile alle altre che insanguinano la nostra penisola, da nord a sud. Gelosia, intimidazioni, il rifiuto di accettare la fine di una relazione. 

Una violenza culturale che tracima nel sangue della barbarie, della “soluzione definitiva”. Dinnanzi a questo orrore giornaliero, come risponde la gran parte di questo Paese? Con l’indignazione momentanea, un po’ di voyerismo pettegolo in stile Porta a Porta, un pizzico di rabbia mista a rassegnazione e poi il nulla. Silenzio. Si ritorna alla vita di sempre, le macchie di sangue si cancellano e magari si trascorre la giornata ad evitare lo sguardo della vicina di casa, della collega, di un’amica o di una familiare che subisce le angherie fisiche e psicologiche di qualche fidanzato, marito, ex, parente più o meno stretto. Eppure al peggio non vi è mai fine e nulla insegnano le esperienze del passato.

Così, succede che a Bernareggio ci sia un vice-sindaco leghista, il quale, in mezzo alla tragedia, invece di interrogarsi su quello che si fa, o meglio non si fa, per tutelare le donne in Italia e per debellare la violenza dei comportamenti e di certi modelli di linguaggio che anche la politica (la Lega in primis) promuove e diffonde, decide di etnicizzare le responsabilità, scaricando le proprie. Tutto perché, questa volta, l’assassino è di nazionalità marocchina, quindi è un “altro”, il portatore di valori che sono “lontani”, “devianti” per cultura. “Pensare di farsi una famiglia con un musulmano- afferma Stefano Tornaghi – è utopia. Poi è normale che le cose vadano a finire così”. E giù a coronare questo scempio all’intelligenza umana con tutta una serie di ragionamenti sull’immigrazione che “abbassa la classe sociale”, sul fatto che si è consentito l’ingresso in Italia “a cani e porci”, ecc.

Qualcuno dotato di faccia tosta potrebbe chiamarlo spirito di auto-conservazione, ma in realtà è ignoranza, idiozia che nasconde una pericolosa complicità. E dire che, non troppo lontano da Bernareggio, a Erba, nel 2006, quando un bambino, la madre, la nonna ed una vicina di casa vennero accoltellati e sgozzati da una coppia di italiani, in tanti si dicevano convinti che l’assassino fosse il capofamiglia, Azouz Marzouk, per un’associazione tanto immediata quanto falsa tra cultura islamica e pratica dello sgozzamento. Come se la ghigliottina, tanto usata per secoli in molte nazioni europee (compresa l’Italia), non fosse mai esistita o fosse un’invenzione letteraria. La volgarità morale e culturale del vice-sindaco leghista è concime di ignoranza, mistificazione, falsificazione di una realtà che ci dice che la violenza sulle donne attiene alla cultura del maschio di ogni razza, nazione, età, classe sociale.

Ce lo dicono le cronache, gli identikit di assassini, stalker, stupratori. E tanto per rinfrescare la memoria anche a qualche uomo di Chiesa, la gran parte di questi crimini si svolge all’interno delle famiglie, dei matrimoni “regolari”, quelli tanto decantati e difesi dalle gerarchie, le quali, di fronte alla sofferenza e al dolore di una donna, prescriverebbero di continuare ad accettare in eterno, pur di non inciampare nel “peccato” del divorzio, della liberazione e “perfino” della denuncia. Questo gioco a scaricare le responsabilità su etnie precise, così come su eventuali atteggiamenti provocatori delle donne, è pericoloso perché allontana la presa di coscienza, offre un’attenuante assurda a quei violenti che non si riconoscono in quella appartenenza etnica o che trovano compagnia nell’affibbiare alle donne la colpa.

Una complicità prima di tutto culturale, che aiuta a diffondere il virus del maschilismo e della violenza anche nelle giovani generazioni. La questione femminile continua a latitare dai programmi e dai discorsi politici, dai progetti di intervento educativo e di sostegno preventivo alle donne vittime di violenza, e non riesce ad uscire troppo dai limiti labili del fatto di cronaca spicciolo, quello di cui si parla morbosamente per qualche giorno e poi buonanotte al secchio. Nella parte più illuminata della società si prova a far qualcosa, ma c’è bisogno di più strumenti e di maggiore attenzione.

C’è soprattutto bisogno che non ci siano in giro, a maggior ragione nelle istituzioni, esponenti come il leghista Tornaghi, che sono lo spot migliore a vantaggio di chi umilia le donne servendosi di questo perverso allontanamento della responsabilità, in un’atmosfera di ipocrita auto-difesa identitaria. Purtroppo non è l’unico caso. E questo dimostra che forse è anche dal livello di rispetto e attenzione per la donna e per i suoi diritti più veri (le quote rosa sono un palliativo, un’arma di distrazione) che bisognerebbe partire nella scelta dei simboli e delle persone a cui dare il nostro voto. Sarebbe già un inizio.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org