Ci mancava solo la tromba d’aria per aggiungere un timbro di ulteriore drammaticità sulla pelle di una città e di un’area in stato di sofferenza, che è economica, occupazionale, ambientale e sanitaria. Una valanga di acqua e vento, all’indomani dell’ennesima puntata del caso Ilva, con la chiusura di tutti gli impianti annunciata dall’azienda dopo gli arresti, gli avvisi di garanzia e il sequestro dei prodotti finiti e semi-lavorati disposti dalla magistratura tarantina. Il Gip del Tribunale di Taranto, Patrizia Tudisco, non si ferma, continua la sua inchiesta con coraggio e dedizione, nonostante le pressioni di chi, dall’alto, vorrebbe insabbiare tutto in nome della salvaguardia dell’occupazione, scaricando ingiustamente sui magistrati le responsabilità di una situazione gravissima sul piano ambientale e sociale.

A Taranto si scontrano due concezioni opposte, una più radicata e antica, l’altra in crescente diffusione e sicuramente più proiettata al futuro: da un lato, quelli che in nome dell’occupazione sono disposti a dare il colpo di grazia ad un territorio devastato da tumori, malformazioni e morte; dall’altro, chi sostiene che non si possa più rinviare quell’opera di risanamento che è condizione imprescindibile per l’esistenza dell’industria nell’area. È il culmine di una storia di decenni durante i quali si è pensato a distruggere pur di ottenere profitti, seducendo la popolazione con il miraggio drogato di un’occupazione che, in realtà, si è trasformata in suicidio di massa, con responsabilità gravissime delle istituzioni ad ogni livello, dei sindacati e dei cittadini stessi.

Un film già visto, raccontato più volte in diverse parti d’Italia, dove la coscienza ambientalista è stata per lungo tempo patrimonio di poche persone illuminate, tante volte derisa, guardata male, schiacciata dalla violenza del potere e dai suoi meccanismi corrotti di penetrazione ed accondiscendenza, lubrificati sfacciatamente da chi aveva l’obbligo di tutelare innanzitutto i cittadini e la qualità della loro vita e della loro salute. Chi devastava ed inquinava ha ricevuto totale libertà di azione, i sistemi di verifica e di controllo sono stati aggiustati per evitare intoppi a quel profitto la cui inquietante sagoma oggi viene respinta da chi, con la forza della legge, ha deciso che è l’ora di dire basta, di intervenire con determinazione laddove le istituzioni non sono intervenute o lo hanno fatto con complice morbidezza. L’Ilva oggi è costretta a dover risanare per poter proseguire. Se continuerà a infischiarsene delle leggi, come ha fatto fino ad ora, sentirà il rumore delle manette e dei sigilli, oltre che dei sequestri dei prodotti.

Riva e i suoi provano a giocare ancora sporco, disponendo la chiusura di tutti gli impianti per via dell’azione giudiziaria dei magistrati tarantini. Un ricatto che mira ad alzare la tensione non solo a Taranto ma anche in tutti gli altri luoghi d’Italia facenti parte dell’indotto Ilva. L’obiettivo è di creare pressione sui magistrati, grazie anche alla imbarazzante linea d’appoggio del governo Monti e del ministro Clini, che hanno concesso l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) e addirittura approntato un decreto per rafforzare questa concessione, disponendo l’immediata ripresa delle attività industriali dell’azienda guidata da Riva. Una scelta dal sapore dittatoriale che solleva un grave conflitto istituzionale con la magistratura e con le sue legittime decisioni. Uno scontro frontale,  inaccettabile, che mostra ancora una volta l’inadeguatezza di Clini, palesemente industrialista, a guidare un ministero importante e delicato come quello dell’Ambiente.

La parola d’ordine, che è poi la stessa da sempre pronunciata dalle sigle sindacali presenti nell’area, è “prima di tutto, salvare l’occupazione”, che poi sa molto di quel vecchio e insopportabile slogan “meglio morire di fumo che di fame”, infida formuletta di giustificazione alla base di tantissimi degli scempi ambientali e della salute di cui l’Italia è vittima. La situazione è complessa, ma c’è chi non intende ragionare, chi prosegue nella diabolica strada dell’aggiramento delle leggi.  Hanno ragione gli ambientalisti ad accusare Clini e il governo di voler “cancellare i reati” e “bypassare le leggi dello Stato a difesa dell’ambiente e della salute”, parlando di vero e proprio “golpe”. Non si può accettare l’idea che un decreto cancelli il sequestro, attraverso il prolungamento dell’Aia e l’azione di bonifica contemporanea al funzionamento degli impianti (e quindi alla prosecuzione dell’attività inquinante).

Se avessimo un governo e dei sindacati in regola, davvero votati agli interessi dei cittadini, si andrebbe verso l’unica soluzione attualmente possibile: rispettare l’inchiesta condotta dai giudici (un’azione attesa che è mancata per decenni); costringere l’Ilva a compiere di tasca propria le opere di risanamento richieste dalla magistratura; partecipare in parte, a livello statale, a questo risanamento; tutelare i lavoratori attraverso un sostegno economico e l’impiego di parte di loro (anche per mezzo di un percorso formativo) nelle attività di bonifica e di riconversione; sposare una volta per tutte il principio per cui non ci potrà più essere sviluppo senza che si tuteli l’ambiente di insediamento di un impianto e la salute dei cittadini, attivando percorsi differenti, investendo su forme di energia pulita e assicurando il controllo rigido delle procedure in materia di impatto ambientale.

Il problema maggiore, però, è che nel caso dell’Ilva di Taranto ci sono due questioni fondamentali da risolvere: la radicata schiera di rapporti e di complicità tra il mondo istituzionale e politico e i vertici dell’Ilva; il superamento di una logica di sistema, diffusa anche tra i lavoratori, che spinge gli esseri umani a sacrificare la salute propria, dei propri figli e della propria gente, in nome del salario.

È davvero illogico combattere per tenere il proprio posto di lavoro, a 30 o 40 anni, anche si è consapevoli che quel posto, nelle condizioni attuali (quelle che il governo chiede indirettamente di mantenere intatte),  ti costerà un tumore o la morte a 35 o 45 anni, farà ammalare i tuoi figli, ne farà nascere altri malformati e malati, li lascerà orfani di un padre lavoratore che non riceverà nulla in cambio del suo sacrificio, né dall’azienda né dallo Stato. Come finirà all’Ilva non è possibile saperlo, quello che è sicuro è che oggi, a guardare verso l’orizzonte e a operare per un domani migliore, sono rimasti solo i magistrati e i comitati popolari a tutela della  salute pubblica.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org