L’Alcatraz è a Milano. Quella vera, quella fuori dalla seconda circonvalla. All’Alcatraz suona Bon Iver (o suonano, visto che nessuno capisce se sia uno pseudonimo o il nome di un progetto). Prima di Bon Iver c’è il classico gruppo di apertura. Ora, al concerto di Bon Iver devi andarci né arrabbiato né felicissimo. Sai già che è un’esperienza mistica, è un patto che hai fatto con lui ascoltando Holocene. E allora ti chiedi: “Non è che quel barbuto mi stona il mood con un gruppo che non c’entra nulla?”. Il barbuto ti sorride, si liscia la peluria sul volto, accorda la chitarra e ti fa un segno verso il palco. Arrivano tre fanciulle indubbiamente anglosassoni, indubbiamente di Watford, England dice google. Tre fanciulle che sembrano le figlie del reverendo di “Seven Heaven” ma meno ammerigane.

Due chitarre, tre voci. Qualcuno (siamo in Italy baby)  già urla “I love you” e loro sorridono, “thank you” con quell’accento pulito che sa di cottage. Attaccano a suonare e sono di sicuro in gamba. Non so, forse è sin troppo facile, ma certe vocine da “X Factor” nostrane vorrei vederle intorno a me con birra in mano e taccuino nell’altra. Prendo lo spunto e la notte mi faccio un giro su http://www.youtube.com/watch?v=ey6itLlz078Con quelle voci potrebbero davvero leggermi l’esame di diritto commerciale che starei ad ascoltarle.

Se però sintonizzo la testa sull’inglese i testi sono semplici, forse troppo, vaghi nei concetti e nelle astrazioni. Generalizzando “il passato è andato, tengo a te quanto tieni a me” e altre amenità che la lingua di Oxford salvaguardia dalla banalità che tutto ciò avrebbe in quella di Dante. Ma siamo pur sempre al primo album ufficiale “Dead&Born&Grown”, quindi salvo qualcosa in particolare: Mexicohttp://www.youtube.com/watch?v=hYV0Wp0MdZ4.

E allora un po’ mi innamoro su questo arpeggio e sulla dolcezza di “I’m saving up to take a trip to Mexico, I heard it’s the place to go/ I want to see the colours of another sky/ carry me home on your shoulders/ lower me on to my bed/ show me the night that I dreamed about before” (“Sto risparmiando per fare un viaggio in Messico, ho sentito che è il posto dove andare, Voglio vedere i colori di un altro cielo. Portami a casa sulle tue spalle, scendimi sul letto e mostrami la notte che ho sognato tempo fa”). Molto americano e commerciale il video di Tongue behing my theethhttp://www.youtube.com/watch?v=5Q-CePet15s, ma il ritmo incalzante è di gran classe e senza eccessi e la ricchezza sonora di questo brano è il segno di un virgulto da proteggere e far crescere sino in fondo.

Un po’ di sana grinta/vendetta femminile dà al testo una maturità invidiabile da molti altri artisti. Tornando al 30 ottobre, al live all’Alcatraz, a Perth, a Calgary, ai 9 che dovevano salire sul palco ma si affacciavano dalle quinte per vedere le inglesine (sicuramente contagiati dal Paese dell’Amore o forse reduci da una maratona di commedie all’italiana), al concerto penso che se non fossero così candide e se non avessero quelle voci angeliche ci saremmo seduti dopo il quarto pezzo. Questo il loro limite. Un folk sin troppo plain, senza eccessi o esperimenti. Ma dobbiamo tenerle d’occhio e goderci qualche pezzo del loro album.  

Penna Bianca –ilmegafono.org