A 29 anni dalla sua morte, l’Italia ricorda Bruno Caccia, coraggioso magistrato torinese che ha combattuto la ’ndrangheta rimanendone ucciso. L’Italia che crede nella legalità e nella giustizia commemora un altro grande uomo italiano: un uomo che ha compiuto al meglio il proprio dovere per perseguire degli obiettivi di libertà, un giudice che, come spesso accade, è stato ingiustamente dimenticato fino ad oggi, ma che proprio negli ultimi giorni è stato ricordato con affetto e devozione da diversi esponenti politici e magistrati italiani. Ma chi era Bruno Caccia? Innanzitutto, possiamo dirlo, Bruno Caccia è uno dei pochi che, al pari di Pasolini, “sapeva” prima del tempo. Fu il primo, infatti, a denunciare infiltrazioni da parte della ’ndrangheta nel Piemonte, il primo a combatterla, a mettere il bastone tra le ruote di una organizzazione in forte ascesa.

Erano gli anni ’80 quando incominciò ad indagare, erano gli anni di piombo e nessuno era a conoscenza di un fatto così eclatante. Caccia, insomma, fu colui che diede il via ad una lotta senza freni nei confronti della criminalità organizzata; lotta che oggi è ancora in corso e che non smette di offrire sorprese importanti. L’ultimo caso, infatti, risale al 2011, quando nel corso dell’operazione “Minotauro” 151 persone vennero arrestate tra il Piemonte, l’Emilia e la Calabria, scoprendo, per l’ennesima volta, l’esistenza di infiltrazioni mafiose e casi di collusione politica. Ma la storia della ’ndrangheta in Piemonte non è cosa recente, anzi: quando Caccia incominciò ad indagare, la ’ndrangheta viveva dalle sue parti da molto tempo e mostrava già allora segni di uno strapotere unico.

Il magistrato, infatti, riuscì a scoprire un caso di infiltrazione mafiosa che vide coinvolto persino il bar del Tribunale nel quale lavorava: quello fu uno degli esempi più evidenti che dimostrò come le ’ndrine fossero capaci di esercitare una pressione capillare già in quegli anni. Ciò non piacque affatto all’organizzazione. I boss, infatti, trovarono un muro dinnanzi a loro. Secondo le dichiarazioni del boss Domenico Belfiore (mandante, tra l’altro, dell’omicidio di Caccia), il magistrato era uno con cui “non si poteva trattare”. Evidentemente, quindi, la ’ndrangheta aveva trovato in lui un elemento difficile da convincere, un ostacolo duro da aggirare. Questo, forse, accadde perché molti colleghi dello stesso Caccia, al contrario, avevano deciso di scendere a patti con la stessa organizzazione.

Ma lui no, non lo avrebbe mai fatto. E non lo fece. Così, per punirlo, il 26 giugno del 1983, alcuni sicari spararono ben 14 colpi di pistola contro il magistrato torinese, in quel momento solo e senza scorta. Fu un evento tragico, sfortunato. Ma fu un evento comunque prevedibile e previsto. Caccia sapeva della pericolosità del suo incarico e sapeva benissimo a cosa andasse incontro. Eppure, come tantissimi altri morti sotto il piombo mafioso, non ebbe alcun timore di fronteggiare la “mafia”. Proprio per questo motivo Libera, l’associazione di Don Ciotti, ogni primavera, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno, ricorda la figura di Bruno Caccia quale vittima della criminalità organizzata. Una vittima di prestigio e di grande importanza, poiché è anche grazie al suo impegno da pioniere che la lotta alla ’ndrangheta nel Nord è oggi possibile. 

Bruno Caccia non va dimenticato. Se è vero che in pochi conoscono la sua storia (persino nel suo Piemonte), è altrettanto vero che proprio in questi giorni in tanti hanno cercato di ricordare il suo operato. Proprio lo scorso martedì, infatti, la Commissione speciale per la legalità di Torino si è incontrata con il prefetto torinese Alberto Di Pace e con il procuratore capo di Torino, per commemorare Bruno Caccia. Anche Sonia Alfano, eurodeputata, ha voluto ricordarlo affermando che “uomini come il giudice Caccia vanno ricordati per rendere giustizia a chi ha pagato con la vita il proprio impegno per la legalità”. Insomma dobbiamo dire grazie a Bruno Caccia. Grazie per il suo impegno e per la sua sete di giustizia che lo ha sempre contraddistinto. Che la sua vita e il suo sacrificio, attraverso la memoria, valgano da esempio per le nuove generazioni di magistrati e non solo. 

Giovambattista Dato -ilmegafono.org