Non può essere un giorno qualunque. Il Primo Maggio è il giorno dei lavoratori, quelli che il lavoro ce l’hanno e quelli che lo hanno perso. Quelli che si sentono perduti e quelli che combattono per spazzare via lo spettro della rassegnazione. Non può essere solo un giorno di musica e grigliate. Non poteva esserlo prima, né a maggior ragione adesso, in questo momento terribile, mentre c’è una parte di questo Paese che lotta contro chi vuole distruggere, in nome del mercato, tutto quell’insieme di diritti conquistati negli anni a caro prezzo. Le mire distruttive verso l’articolo 18, da parte della Fornero, di Monti e di chi li spalleggia, sono solo l’ultima beffa nei confronti dei lavoratori, un cedimento strutturale e storico della politica rispetto alle logiche di un mercato che mette il profitto al centro di tutto, costruendolo con mattoni fatti di sfruttamento bestiale, di restrizione di diritti fondamentali, di assottigliamento della dimensione sociale, umana e culturale del lavoratore. C’è un clima pessimo, ci sono situazioni drammatiche che investono la vita di centinaia di migliaia di persone.

È in atto uno scontro fra un sistema ottuso e spietato e un mondo fatto di disperazione, rabbia, dolore, che si mischia alla sfiducia nei confronti di coloro che sono chiamati a decidere o che dovrebbero difendere quello che è un principio a cui la nostra Costituzione ha dedicato il suo primo articolo, un prologo che oggi ha il suono di una canzone bellissima suonata in mezzo a un turbinio di rumori. Non è solo l’articolo 18 il problema, ma la situazione generale di un Paese in cui il mercato e la finanza hanno per anni frantumato la sfera umana, con il suo pieno di sogni, progetti, speranze, vita. Non solo precarietà selvaggia, condizioni di sicurezza troppo spesso non rispettate, ma anche orari di lavoro folli ripagati con stipendi inadeguati, un tempo pieno dedicato all’attività lavorativa per il bene esclusivo dell’azienda, che ha trasformato i lavoratori in numeri, svuotandoli di tutto ciò che non è essenziale al meccanismo del lavoro.

Niente più tempo per noi stessi, per le nostre passioni, per i nostri interessi culturali, per l’impegno sociale, che restano patrimonio esclusivo di chi ha la possibilità e la resistenza di fare salti mortali, allungandosi la giornata e riducendo il sonno pur di non vivere di solo lavoro. Nella maggior parte dei luoghi di lavoro si sta dalle 10 alle 12 ore al giorno; lo straordinario è solo un miraggio, considerata soprattutto l’enorme diffusione di contratti a progetto e di altre forme “creative” per mascherare un rapporto di impiego subordinato; la sindacalizzazione, in molti settori, è pressoché inesistente e la paura di trovarsi tagliati fuori rende più facile cedere al ricatto dell’occupazione a tutti i costi. Così, molti imprenditori, ispirati dalla “filosofia Marchionne” giocano con la vita della gente, stabilendo il prezzo della rinuncia a tutto, ai propri progetti familiari, alla partecipazione attiva alla vita politica e sociale, al proprio tempo libero, che diventa sempre meno, al diritto di non essere solo una donna lavoratrice, ma anche madre.

Insomma, c’è un mondo imprenditoriale che, con arroganza, succhia il sangue dalle vene più intime di questa nazione, utilizzando la violenza del denaro, instillando nella mente dei cittadini, grazie alla crisi, una pericolosa cultura secondo cui avere un lavoro, anche se sottopagato rispetto alle ore giornaliere lavorate, è una fortuna. Una schiavitù accettata più o meno consapevolmente. Una schiavitù che restringe lo spazio della conoscenza e dell’informazione, l’interesse per la cosa pubblica, a tutto vantaggio di chi vuole continuare a gestire il potere senza permettere la formazione di una nuova classe dirigente, ma lasciando tutto in mano ad oligarchie ormai radicate e fortificatesi attraverso la clientela e i rapporti promiscui con il “dio denaro” e chi lo fa fruttare. La strategia è quella di spersonalizzare i lavoratori, flagellare quella coscienza e quella solidarietà che li rendevano “classe sociale”, fomentare un individualismo che si sposa perfettamente con la dimensione consumistica dell’economia globalizzata.

Ecco perché una forma di società liquida, come la definisce Bauman, in cui i rapporti sociali e interpersonali spariscono, perdono consistenza, spazza via e sostituisce i legami solidi, concreti, anche conflittuali ma reali e ben definiti del precedente modello di società. A tutto vantaggio di quell’industria che vuole non comunità ma singoli individui, ognuno diffidente nei confronti dell’altro e, dunque, meno solidale in tutto, a partire dalla rivendicazione di diritti che appartengono a tutti. Singole cellule che percepiscono un costante senso di insicurezza e di assedio, egoiste, aggressive, rassegnate di una rassegnazione che viene percepita e vissuta, ad un certo punto, in totale solitudine e, dunque, senza via di uscita né clamore particolare agli occhi delle altre “cellule”. Un organismo malato che muore senza nemmeno accorgersi della propria agonia.

L’aumento dei sucidi tra lavoratori di ogni livello certifica la crisi disastrosa del modello di solidarietà sociale che tante conquiste aveva ottenuto nei decenni passati. Tutto è figlio di una strategia precisa, scientificamente studiata, che ha snaturato la fisionomia del sistema del lavoro in Italia. Non solo la flessibilità imperfetta e mostruosa attuata alla meno peggio da 20 anni di “non-politica”, ma anche il progressivo allungamento della giornata lavorativa, con ripercussioni in termini di sicurezza sul lavoro e di serenità del lavoratore. La stessa macchina della comunicazione di massa si è subito adattata alla nuova situazione, in raccordo con l’industria pubblicitaria: la tv, ad esempio, ha visto spostare in avanti di oltre un’ora la programmazione della prima serata e aumentare la qualità e l’offerta per la seconda serata.

Tutte piccole variazioni apparenti, che in realtà sono scelte raffinate di natura commerciale ed industriale. Il cittadino, lavoratore o disoccupato, va spremuto fino in fondo, anche nella sua dimensione più intima. Se questo è il mondo che ci piace, allora il Primo Maggio viviamolo solo come un normale giorno di vacanza. Se invece pensiamo che ci sia un altro mondo possibile, allora partiamo dal senso più profondo di questa giornata e respiriamolo ogni giorno, rivendicando, denunciando, rifiutando il ricatto e alzando sempre la testa per difendere i nostri diritti e anche quelli di chi non ha il coraggio o la forza di farlo. Spezziamo la solitudine, stiamo accanto a chi non si piega e combatte, perché per fortuna in questo malandato Paese c’è ancora chi lotta, chi si tiene per mano, chi resiste e, soprattutto, chi unisce braccia e gambe in un unico cammino verso la giustizia, percorrendo non pavimenti liquefatti, ma strade. Lunghe, dissestate, ma pur sempre reali e non liquide.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org