Non c’è alcun dubbio che l’avvento di Monti e del suo “staff tecnico” alla guida del governo del nostro Paese ci abbia ridato, nello scenario europeo e internazionale, una nuova credibilità, gravemente compromessa e ridicolizzata dal berlusconismo e dallo stuolo di stolidi replicanti che ne cantavano le lodi. Il ruolo nuovo dell’Italia però non si è qualificato come forza innovativa in grado di riaprire una profonda riflessione sulle storture e sulle logiche perverse del dominio delle lobbies finanziarie e bancarie e di imprimere un’inversione di tendenza in un sistema che antepone il potere del denaro e il mercato al progresso sociale e ai bisogni fondamentali dei popoli del continente europeo; il terribile calvario del popolo greco è l’esempio tragico di questa aberrante concezione. Le scelte di Monti e del suo governo sono strettamente incastonate in una logica liberista, di stampo rigidamente conservatore, funzionale al dominio dei paesi economicamente più forti (Germania in primo luogo), imposte dal diktat della banca centrale europea e della commissione europea e dalle strategie fallimentari del fondo monetario internazionale. Le regole ferree sul pareggio di bilancio (fiscal compact) da inserire nelle costituzioni nazionali, le scadenze prefissate  per l’abbattimento del debito pubblico, il controllo decisionale sulla sostenibilità delle finanze pubbliche e sul rispetto del patto di stabilità trasferiti ai tecnocrati della Bce e della Commissione Europea, costituiscono per i paesi con forte debito pubblico e con economie in difficoltà, come l’Italia, un prezzo pesantissimo da pagare sotto il profilo sociale ed umano.

Le scelte del governo Monti sono fondamentalmente la cartina di tornasole di questa logica brutale che abiura ad ogni idea di solidarietà e che è indifferente ai dolorosi effetti che produce su larghe parti delle popolazioni. Se è vero che la rapidità e l’ampiezza delle decisioni assunte dal cosiddetto governo tecnico italiano hanno rimesso in rotta quella che appariva una “nave senza nocchiere in gran tempesta” ed hanno evitato i rischi di un disastroso tracollo del nostro paese, è altrettanto vero che il taumaturgo Monti ha affondato il bisturi sulle categorie più deboli, mentre solo in minima parte ha effettuato l’incisione del bubbone dei grandi patrimoni, delle rendite finanziarie, degli evasori legalizzati (quelli dello scudo fiscale: i miracolati da Berlusconi e Tremonti). Il brusco innalzamento dell’età pensionabile, con i drammi che stanno vivendo o vivranno decine di migliaia di persone che vedono allontanarsi il diritto che avevano maturato o che, se perderanno il lavoro, rischiano di andare ad ingrossare le fila dei nuovi poveri senza alcun sostentamento economico, è una scelta odiosa e inaccettabile. E insieme a queste,  altre misure (come l’aumento delle accise sui carburanti) che penalizzano categorie produttive già in difficoltà, fanno lievitare i prezzi, deprimono i consumi e danneggiano ancora di più i ceti sociali economicamente più fragili.

I piccoli passi avanti fatti con il provvedimento sulle liberalizzazioni (svuotate delle misure più incisive – come l’obbligo dei preventivi per i professionisti o la possibilità per le parafarmacie di vendere i farmaci di fascia C, come gli obblighi ridotti ed epidermici per banche e assicurazioni) rappresentano solo dei modesti aggiustamenti che non scalfiscono il predominio delle corporazioni (avvocati, farmacie, banchieri, ecc.) e non determinano l’affermarsi di una reale concorrenza per diminuire costi e privilegi. La stessa riforma del mercato del lavoro, necessaria per cancellare la pletora di forme contrattuali introdotte prima dalla legge Treu e poi dalla legge 30, che hanno prodotto precarietà, sottosalario e annullamento di diritti fondamentali, nella logica del ministro Fornero e del governo Monti appare un tentativo di semplificare in una visione liberista i meccanismi di occupazione/disoccupazione,  più che una reale volontà di dare maggiore tutela non solo e in primo luogo ai giovani ma anche a chi si trova quotidianamente a dover lottare, in una grave fase di recessione, per mantenere condizioni di sopravvivenza.

Non è forse questo il senso della permanente insistenza sull’art. 18 della legge 300? Come si concilia la volontà di rimettere in discussione una delle norme più avanzate di civiltà giuridica contro i licenziamenti discriminatori con l’affermazione che si vogliono eliminare le ingiustizie e la dequalificazione di un mercato del lavoro dove ancora prevalgono le scorrerie di imprese rapaci?  Come si fa a parlare di riforma degli ammortizzatori sociali o di reddito sociale se non si indicano le risorse e non si chiarisce da dove prenderle?  Il pur necessario riconoscimento della serietà operativa di questo governo, anche tenendo conto dei condizionamenti che un’anomala maggioranza politica determina sulle sue scelte, non può far sottacere le contraddizioni e l’insufficienza della sua azione generale.  Non emerge un piano complessivo o la individuazione di interventi in grado di determinare il rilancio dell’occupazione e una prospettiva a breve termine per il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.

L’intensificazione dell’azione contro l’evasione fiscale diffusa è importante per acquisire nuove risorse e per affermare una cultura della legalità, ma molto timida rimane la lotta ai grandi evasori che spesso si annidano nei grandi gruppi immobiliari e nelle scatole cinesi delle società finanziarie. Positiva certamente  la scelta di porre un tetto ai redditi dei boiardi di stato o ai manager e ai funzionari della pubblica amministrazione, ma poco o niente è ancora stato prefigurato o messo in programma per tagliare gli sprechi della spesa pubblica, le prebende lucrose di una moltitudine di consulenti che infestano tutti i livelli istituzionali, o per ridurre fortemente i costi della politica, razionalizzando la funzione, la composizione e il numero di una miriade di commissioni e sottocommissioni che proliferano in tutto il sistema pubblico del nostro paese. Un governo, come quello Monti, che ha scelto di intervenire sull’emergenza e di creare le condizioni per una reale ripresa, deve osare, volare alto, fare scelte di cambiamento. Perché non si mette mano ad un piano straordinario per il lavoro, legando gli incentivi o l’abbattimento di parte degli oneri delle imprese all’obbligo di quote di assunzione di giovani e di disoccupati?

Perché si permette alle banche di gestire i prestiti all’1% concessi dalla BCE per impinguare le loro casse con l’acquisto dei titoli a  rendimenti molto più elevati e non le si obbliga piuttosto a erogare crediti a tassi contenuti alle migliaia di piccole imprese strangolate dalla crisi? Forse perché il limite di questa compagine governativa e dello stesso premier è il loro stretto legame culturale con una visione neoliberista dell’economia. Il distacco e, in qualche caso, la supponenza verso quanto avviene ogni giorno nel paese è il sintomo di una visione tecnocratica dei problemi reali che vivono gli italiani. Decine di fabbriche chiudono e centinaia e migliaia di lavoratori perdono il posto di lavoro, per altri si apre l’incubo di un prossimo azzeramento della loro attività  lavorativa; si ledono diritti fondamentali dei lavoratori, come nel caso della Fiat di Menfi, dove tre operai, pur reintegrati con una sentenza del giudice del lavoro vengono lasciati fuori dai cancelli, o come a Pomigliano, dove il “neopadrone del vapore” Marchionne fa rientrare il fabbrica solo i lavoratori non iscritti alla Fiom, nei call center, dove  migliaia di giovani sono sottopagati e ricattati. Un giovane su due nel Sud non ha lavoro, un terzo dei giovani italiani è nella stessa condizione: eppure il silenzio degli esponenti del governo continua.

La scuola che è stata fatta a pezzi dalla riforma Gelmini non trova risposte correttive nel nuovo esponente della Pubblica Istruzione, anzi avanza una logica di continuità. Al disagio sociale, alla protesta popolare si continua a reagire con l’azione repressiva delle forze dell’ordine. L’ultima decisione del governo illustrata dal presidente del consiglio Monti sulla vicenda della Tav in Val di Susa è la dimostrazione della sordità sui problemi legittimi posti dalle popolazioni di quel territorio. Richiamare alla necessità di isolare e bloccare la violenza di eventuali gruppi eversivi è condivisibile, ma il presidente Monti avrebbe dovuto anche valutare e prendere atto innanzitutto che non si può militarizzare un intero territorio e avrebbe dovuto soprattutto accettare il confronto con le popolazioni, avviare un dialogo, sentire le ragioni di chi sostiene che questa infrastruttura non è necessaria. Invece ha scelto con logica dirigistica solo il responso dei vertici ministeriali, dimenticando che la democrazia non si esercita dall’alto ma promuovendo la partecipazione degli interessi collettivi rappresentati dai cittadini nei territori.

Il governo e il suo premier Monti godono ancora, in base ai sondaggi, di un sufficiente consenso, che però fino ad ora si è misurato solo sul terreno di un’austerità che appariva inevitabile nell’attuale quadro dei rapporti europei e internazionali. Si è sviluppato in questi pochi mesi nell’opinione pubblica  una sorta di conformismo, di acquiescenza che però la realtà sociale del paese potrebbe far dissolvere di fronte all’incalzare delle difficoltà. La perdita di credibilità che hanno subito le forze politiche, e non solo quelle legate al carro berlusconiano, potrebbe contagiare anche il consenso verso il governo Monti se non verranno posti in primo piano i bisogni reali della comunità.

 Salvatore Perna  -ilmegafono.org