Non so se per età, per una maniera personale di analizzare le cose o più per una cocciuta resistenza agli entusiasmi di massa, ma di fronte a certi eventi non riesco ad unirmi al coro e godere troppo degli elementi seppur positivi che da essi se ne possono ricavare. La ragione è una: in generale non mi sento tranquillo e soddisfatto di fronte alla frase “meglio tardi che mai”. Soprattutto quando diventa una formula che marchia la storia del nostro Paese. L’ho sentita troppe volte e ogni volta ne detesto la leggerezza, la superficialità irritante con cui certe bocche la pronunciano, ma ancor più l’entusiasmo acritico con cui gran parte della gente l’accoglie e la metabolizza. Scorrendo le notizie di questi ultimi giorni, leggo di Napolitano, del suo invito affinché in Parlamento si intervenga per far sì che i bambini nati in Italia acquisiscano automaticamente la cittadinanza italiana, come avviene nella gran parte dei Paesi civili.

Ritengo che sia un’aspirazione saggia, quella del presidente della Repubblica, poi però penso che arriva 13 anni dopo la sua apparizione da ministro dell’Interno, quando questa aspirazione non trovava spazio, mentre lo trovavano i Cpt e le altre tragiche idiozie ritenute all’epoca prioritarie, riguardo all’immigrazione. Uguale discorso vale per Livia Turco, la quale oggi va in giro per l’Italia a parlare di integrazione, lei che 13 anni fa non ci aveva nemmeno pensato, non si era accorta che fosse possibile. Per carità, cambiare idea è segno di intelligenza, ma non c’è molto da gioire quando il tempo che è passato conserva il rumore assordante di migliaia di ingiustizie.

Parliamo di quanti, dopo aver scritto o votato la Bossi-Fini, oggi hanno cambiato prospettiva sull’accoglienza e sull’immigrazione: buona notizia ovviamente, ma basterà a far sparire il dolore, la sofferenza, la dignità violata di chi continua a subire quotidiani soprusi legalizzati dallo Stato? E le indagini sul caporalato a Rosarno o a Foggia? Ci sono volute proteste, scontri e, nel caso della città pugliese, il reportage di un giornalista infiltrato per far scattare le inchieste: intanto quanta umanità ha dovuto subire umiliazioni, violenza, morte? E potremmo continuare con altri esempi, anche in altri ambiti: come gli industriali siciliani, che qualche anno fa hanno deciso di dire qualcosa contro la mafia, di prendere una posizione in merito al racket.

Tutti ad applaudirli, tutti ad esaltare la portata rivoluzionaria del loro gesto. Peccato che sia solo un rimedio ad una mancanza vergognosa, un rimedio che arriva con quasi 20 anni di ritardo rispetto alla battaglia di Libero Grassi, massacrato dalla mafia, grazie anche alla solitudine a cui proprio Confindustria lo aveva lasciato. Nel frattempo quanti appalti truccati, quanti scempi del territorio, quanti soldi versati agli amici degli amici per ottenere favori, facilitazioni e protezione. “Non è mai troppo tardi”, si dice. Certo, è vero, sempre più utile rimediare che perseverare nell’errore, ma che prezzo ha questo ritardo? Cosa si è sacrificato nell’attesa del rimedio?

Il problema dell’Italia è che si interviene sempre a mettere una toppa su una falla gigantesca, si arriva sempre dopo, con tutto quello che ne deriva. E allora rallegratevi pure, io non ci riesco. Non sono capace di esser felice per qualcosa che dovrebbe essere normale, tempestivo. Non sono capace di esser soddisfatto per una presa di coscienza che non cancella anni di ingiustizie. Forse è giunta l’ora che la smettiamo di accontentarci e di costringerci ad accettare le briciole e i palliativi. È ora che si riattivi la memoria e ci si ricordi il passato, con tutto ciò che è stato fatto e ciò che non è stato fatto. Solo così possiamo evitare di ripetere l’avvilente abitudine italiana ad applaudire chi cambia idea, dimenticando d’un colpo quel che pensava e faceva prima. In questo caso, sì, che non è mai troppo tardi…

Massimiliano Perna –ilmegafono.org