Una decisione che lascia molto perplessi, soprattutto perché arriva in un momento molto delicato e perché si basa su principi che appaiono discutibili. La Corte di Cassazione, con la sentenza n.13532, ha assolto un datore di lavoro che era stato condannato in appello per riduzione in schiavitù nei confronti di due cittadini rumeni. Una vicenda che ripropone il drammatico fenomeno dello sfruttamento, il coraggio degli sfruttati di denunciare e, purtroppo, una giustizia che, all’ultimo grado di giudizio, non aiuta chi vive in condizioni di soggezione. Il caso specifico riguarda un’uomo che aveva “assunto” in nero i due lavoratori come guardiani di una mandria di 200 bovini, con il compito di prendersene cura e farli pascolare. La paga stabilita ammontava a 500 euro al mese per ben 18 ore di lavoro, dalla mattina alle 4 fino alla sera alle 22.

Stipendio che i due lavoratori non hanno mai percepito. Ai due, inoltre, per le poche ore di riposo, era stato dato un casolare fatiscente e privo di qualsiasi servizio igienico. Condizioni di lavoro e di vita disumane che avevano indotto la Corte d’Appello a condannare il datore di lavoro, un pregiudicato calabrese già noto per reati di mafia, con l’accusa di riduzione in schiavitù. La Cassazione, però, ha respinto la decisione dei giudici di secondo grado, accogliendo il ricorso del “padrone”, stabilendo che è lecito parlare di riduzione in schiavitù solo nel caso in cui l’immigrato venga privato della propria libertà attraverso la minaccia, la violenza oppure approfittando di uno stato di inferiorità psichica, fisica o di necessità.

Non sono sufficienti, secondo i giudici della Corte, né lo sfruttamento né la fatiscenza ed il degrado dell’alloggio offerto, né il salario misero e non corrisposto. In poche parole, se il migrante può in qualche modo scegliere di andarsene, a maggior ragione se in regola, non scatta il reato di riduzione in schiavitù per chi lo sfrutta. Poco importa che sia stato trattato in modo disumano o non pagato per il proprio lavoro.  “Sono sempre cauta nel commentare le sentenze della Cassazione, soprattutto se le apprendo dalla stampa e non leggendo il testo integrale della sentenza. Detto questo, però, il discorso che la schiavitù del migrante è legata alla semplice costrizione fisica è quantomeno surreale”.

A parlare è Stefania Ragusa, giornalista, co-fondatrice del Movimento Primo Marzo, che ha organizzato nel 2010 la manifestazione nazionale dei migranti, e autrice del libro “Le Rosarno d’Italia” (Vallecchi editore) in uscita in questi giorni. Principio più che discutibile. “Esistono – ci dice la Ragusa – tante altre forme di schiavitù: morale, psicologica, oltre che quella legata alla mancanza di strumenti normativi. Molti migranti non conoscono la lingua, il Paese, le leggi e le tutele, e finiscono per essere schiavi di chi ne approfitta. Come fanno ad affrancarsi? Il principio stabilito dalla Corte è più che discutibile. È come se, per capire che sei stato ridotto in schiavitù, dovessero beccarti necessariamente con le catene ai polsi e alle caviglie”.

Il possesso del documento di soggiorno non rende meno ricattabili i migranti e, dunque, non facilita il loro sottrarsi a meccanismi di schiavismo moderno: “Non cambia molto – afferma la giornalista – perché in questo Paese se perdi il permesso perdi tutto e questo l’immigrato lo sa bene. Così, accade che molti, seppur in regola, lavorino accettando condizioni assurde di sfruttamento e schiavitù, con paghe misere, pur di non perdere il permesso. Anche se non sei costretto fisicamente, non hai comunque libertà di scelta”.

Massimiliano Perna – ilmegafono.org