Nei programmi didattici italiani è incluso lo studio delle due rivoluzioni industriali che vengono presentate, agli ancora ingenui cittadini del domani, come due tappe fondamentali ed indiscutibilmente positive dell’evoluzione del vivere economico- sociale. Eppure, a ben vedere i risultati che nel tempo tali tappe hanno comportato, dare loro un valore puramente positivo sembra sempre più difficile. L’avvento delle industrie ha innegabilmente comportato evoluzione e ricchezza ma a quale prezzo? Il più delle volte a costo della salute di ignari o inermi cittadini. La natura umana è infatti molto particolare: ci sono uomini che, davanti alla possibilità di trarre profitto, finiscono con il perdere di vista cose indiscutibilmente più importanti. Così leggi sui limiti di emissioni o sulla sicurezza del lavoro vengono costantemente disattese in favore del pericolosissimo culto del dio denaro. Sono proprio le industrie e, soprattutto, il pessimo utilizzo che l’uomo ne ha fatto, ad aver comportato l’insorgere di quello che può prendere il nome di “caso Taranto”.

Una delle silenziose vergogne italiane, una strage degli innocenti che si consuma sotto l’occhio di tutti i tarantini ma che in pochi conoscono nel resto d’Italia. Gli italiani, che spesso si indignano o si emozionano davanti alle atroci immagini di guerra che arrivano dall’altra parte del mondo, non sanno che molto più vicino a loro si combatte una stranissima guerra. La guerra di Taranto. Una guerra senza missili né bombe ma non per questo meno sanguinosa. A Taranto il nemico non indossa una tuta mimetica ma gira indisturbato tra i cittadini in giacca e cravatta, non usa proiettili o esplosivo, ma uccide con un’arma molto più subdola, con l’aria. Il nemico a Taranto non è nemmeno un uomo, è  l’Ilva, il colosso siderurgico che miete indisturbato vittime da troppi anni. Ma perché possa parlarsi di guerra è necessario che ci sia una controparte, una resistenza. La resistenza a Taranto è portata avanti da coraggiosi cittadini, da persone qualunque, spesso vittime dell’Ilva, che non accettano di restare a guardare mentre il nemico gli porta via l’unica cosa che conta: la vita.

Il simbolo della resistenza a Taranto può essere la signora G.S., una particolarissima partigiana, ben diversa dalle infantili fantasticherie sui combattenti, tutt’altro che forte o invincibile, la nostra eroina è affetta da leucemia, ma il suo male è divenuto la sua forza, ciò che le ha dato la forza di ribellarsi, di chiedere giustizia, di pretendere che siano puniti tutti i responsabili. Nel settembre 2006, dopo aver scoperto l’insorgere della malattia, G.S. non si è arresa all’inevitabile tristezza, alla comprensibile paura, ma ha preferito dar voce alla propria rabbia e ha denunciato Emilio Riva, il responsabile dell’Ilva S.p.A., l’impianto ritenuto la causa dell’insorgenza della sua patologia.È iniziata così una sfiancante battaglia legale fatta di richieste di archiviazione e di opposizioni, di complicati termini legali come “nesso di causalità” (termine molto amato ed utilizzato da quanti hanno più volte chiesto l’archiviazione della pratica) e di scelte incomprensibili.

Per esempio risulta incomprensibile (o al contrario tristemente comprensibile) la scelta della Procura di Taranto di non attenersi a quanto stabilito dal Gip Santella che, nel giudicare ammissibile l’opposizione all’archiviazione e nell’ordinare la prosecuzione delle indagini, aveva nominato come consulente tecnico il dottor Patrizio Mazza, primario di Ematologia dell’ospedale Moscati di Taranto. Un consulente indiscutibilmente preparato, forse ritenuto poco “vantaggioso” perché anche lui impegnato da anni nella lotta all’Ilva. La battaglia è continuata così sino al febbraio 2009, quando il Tribunale di Taranto ha deciso di archiviare l’intero procedimento, non ravvisando alcun reato a carico di Emilio Riva. Ma un resistente, si sa, non si dà per vinto. Così, nell’agosto 2009, la sig. G.S. ha sporto ricorso alla Corte di Giustizia Europea contro la Procura di Taranto, per aver violato, nel corso delle indagini, l’articolo 6 della Carta dei Diritti dell’Uomo e l’articolo 360 del codice di procedura penale italiano, e contro il Parlamento italiano per la violazione dell’articolo 2 capo 1 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo che sancisce il diritto alla vita.

Con il D.Lgs. 152/2006 (il Testo Unico sull’Ambiente), il Parlamento Italiano ha infatti elevato i limiti europei di immissione di diossine nell’aria e, conseguentemente, intaccato il diritto alla vita di molti italiani che vivono a ridosso di zone industriali. Il ricorso della signora G.S. è a attualmente al vaglio della Corte di Giustizia Europea, la guerra non è ancora vinta ma la battaglia si. Con il proprio coraggio G.S. è riuscita a trasformarsi da vittima in eroina, si è assunta il doveroso compito di portare alla luce dei crimini che per anni sono stati nascosti, un importantissimo compito visto che purtroppo la guerra di Taranto è anche la guerra di Porto Marghera, di Augusta, di Priolo, di Melilli. Deve finire il tempo della passiva accettazione, tutte le vittime devono imparare da G.S. a reagire per avere garantiti i propri diritti e per provare ad offrire ai propri figli (o quantomeno ai propri nipoti) un luogo migliore in cui vivere e, soprattutto, un’aria che non li uccida respiro dopo respiro.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org