Ad un anno dalla scomparsa, emerge la verità sulla vicenda di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, e finalmente vengono arrestati i responsabili della sua atroce fine. Il gip milanese, Gennari, ha infatti emesso sei ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di  altrettante persone, accusate di aver sequestrato e ucciso Lea. La donna, 35enne di Petilia Policastro (KR), scomparve nel novembre del 2009 a Milano, dopo l′ennesimo incontro con i magistrati avvenuto a Firenze. Tale notizia, che venne riportata solo nel febbraio successivo dopo un′inchiesta avviata dalla procura di Campobasso, fu immediatamente inquadrata all′interno di vicende legate alla criminalità organizzata. Alle spalle della Garofalo, in effetti, vi era una vita piuttosto tortuosa e difficile, dovuta soprattutto ad un cognome conosciuto fin troppo bene negli ambienti della magistratura.

I Garofalo rappresentano già da tempo uno dei clan di spicco della ′ndrangheta e, da molti anni, gestiscono diversi “affari” all′interno della società milanese. L′iniziativa della donna di collaborare con la giustizia fu una decisione coraggiosa per rompere i rapporti con la ′ndrangheta, colpevole di aver ucciso diversi componenti della sua famiglia, come alcuni cugini e, per ultimo, il fratello Floriano, nel 2005. Una situazione, dunque, piuttosto complessa, ma dalla quale la donna, con coraggio e fatica, è riuscita ad emergere, anche a costo di accusare lo stesso fratello, rivelando alla magistratura il coinvolgimento dell′uomo nell′omicidio di Antonio Comberiati, elemento di spicco della ′ndrangheta, avvenuto nel 1995. È proprio per questo motivo che, secondo gli inquirenti, Lea è stata uccisa.

La Garofalo, dunque, collaborava con i magistrati rivelando delle verità importantissime per la lotta alla criminalità; così, nel 2002 venne ammessa nel programma di protezione (poi revocata nel 2006 e nuovamente riassegnata nel 2007), e ciò impedì alla ′ndrangheta di avvicinarla e costringerla a tacere. Ma nel maggio del 2009, un mese dopo la rinuncia alla protezione, si ha il primo tentativo di sequestro. Un finto idraulico si presenta nell′abitazione della donna, a Campobasso. In realtà, l′uomo è Massimo Sabatino, uno degli arrestati. La donna, che riuscì a salvarsi grazie all′aiuto della figlia, si presentò poi ai carabinieri rivelando l′accaduto ed accusando l′ex marito, Carlo Cosco, di essere il mandante di quel tentato sequestro. L′uomo, anch′egli legato agli ambienti criminali, avrebbe così tentato di far tacere la donna, preoccupato per ciò che ella avrebbe potuto riferire ai magistrati.

Successivamente, nel novembre dello stesso anno, i due si incontrano a Milano per discutere del futuro della figlia Denise. È proprio in questa occasione che Lea Garofalo scompare  ed è proprio in quei giorni che, come accertato dall′inchiesta, la donna sarebbe stata uccisa nel capannone di una cittadina nei pressi di Monza. Secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, la Garofalo, che si stava dirigendo verso la stazione per poi tornare in Calabria con la figlia, sarebbe stata catturata e caricata su un furgone, inizialmente diretto a Bari, con all′interno ben 50 litri di acido. Quindi, sarebbe stata torturata nel tentativo di farle rivelare quanto confessato ai magistrati e solo alla fine uccisa con un colpo di pistola alla nuca e poi sciolta nell′acido.

Una vicenda agghiacciante, terribile. Così, in manette sono finite 6 persone, tutte coinvolte nell′omicidio, tra cui lo stesso Carlo Cosco, già in carcere proprio perché reo di aver organizzato il tentato sequestro del maggio 2009. Ancora una volta, ci troviamo dinnanzi ad un fatto violento, disgustoso, che mostra tutta la crudeltà che è propria dei clan mafiosi; un omicidio che ha portato, come soluzione finale, all′eliminazione totale del corpo. In questo modo, secondo gli inquirenti, l′ipotesi della scomparsa non avrebbe trovato ostacoli. Ma ciò, fortunatamente, non è avvenuto. Anzi, proprio il grande lavoro compiuto nel corso degli ultimi mesi ha portato alla luce la verità. Sono due gli aspetti che emergono in questa tragica vicenda: innanzitutto l′impassibilità, l′indifferenza che un uomo di mafia può provare nei confronti di una persona (ed in questo caso di una donna ) con la quale si è condivisa parte della propria vita, un matrimonio e persino la nascita di una figlia.

È una questione morale, dunque, quella che rileva immediatamente. È davvero possibile che gli affari di mafia vengano prima degli affetti personali? In secondo luogo, emerge un aspetto non certo meno importante: la presenza sempre più forte e consolidata della ′ndrangheta nel Nord e, specialmente, in Lombardia. Come detto , infatti, la stessa famiglia Garofalo godrebbe di una certa potenza nel capoluogo lombardo e ciò non fa che peggiorare la realtà milanese, in cui è sempre più radicato il sistema di potere dei “calabresi”. C′è anche un altro elemento, di carattere generale, che risalta: l′atteggiamento dei mass media.

Alla luce di quanto accade oggi in Italia e dell′importanza che troppo spesso i media assegnano a determinati avvenimenti, è lecito chiedersi perché la notizia della morte di una collaboratrice di giustizia passi così inosservata, quasi fosse un omicidio qualunque. L′elemento base di un′informazione sana e pulita dovrebbe essere quello di non censurare nessuna notizia, fare in modo che la trasparenza sia il motore della stessa informazione.

Non si spiega il motivo per cui, ad esempio, la televisione venga completamente inondata da notizie sempre più ripetitive, discussioni e talk-show inutili, tacendo e ignorando vicende come quella di una donna che ha combattuto con coraggio la sua battaglia personale contro la criminalità organizzata, finita nel modo più atroce che si potesse immaginare. A quella donna, al suo coraggio, alla sua forza, bisognerebbe rendere giustizia. Cominciamo a parlarne e a non dimenticarla.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org