“Riprendiamoci il futuro”. “Salviamo la scuola”. “L’università non pagherà la vostra crisi”. Dopo due anni, un po’ sciupati ma sempre efficaci, gli striscioni sono ancora lì, per le strade, negli USP occupati, negli androni delle università, in ogni luogo in cui c’è qualcuno che manifesta tutto il proprio dissenso nei confronti di una riforma che di epocale ha solo il numero di precari e di disoccupati che si lascia dietro. Gli striscioni sono ancora lì e con loro anche le migliaia di docenti, precari e di ruolo, di ricercatori, collaboratori ATA, studenti, i quali, nonostante la sordità del governo e i tentativi di minimizzare (“Non ricordo un anno scolastico che non sia stato accompagnato da una serie di polemiche e proteste”, ha dichiarato a settembre il ministro Gelmini), hanno continuato a far crescere il movimento in difesa della scuola pubblica.

Ci voleva Mariastella Gelmini per portare il timido popolo della scuola, per niente barricadiero, capace di adattarsi camaleonticamente ai cambiamenti imposti da ministri poco attenti alla qualità della didattica e poco consci dei reali problemi della scuola, a osare azioni eclatanti. In 4000 hanno invaso lo stretto di Messina, il 12 settembre, scorso bloccando per qualche ora un traghetto e i binari della stazione ferroviaria; in tanti hanno presidiato gli uffici scolastici provinciali; in tanti, purtroppo, hanno sperimentato forme estreme di protesta, come lo sciopero della fame. Chiede il ritiro dei tagli, il popolo della scuola, quelli previsti e programmati da una legge finanziaria, la n.133 del 2008, in barba ad ogni ragionamento sulla qualità e sull’efficacia formativa della scuola, ma chiedono anche l’abrogazione della “controriforma” Gelmini (DL n.169 e DL n.180 del 2008), che dequalifica, fino a distruggerla, l′istruzione pubblica, mentre si continua a finanziare quella privata (800.000 euro sono stati versati ad una scuola padana, di cui è socia la moglie di Umberto Bossi).

E basta entrare in una scuola di qualsiasi ordine e grado, soprattutto al Sud, il più colpito dai tagli, per rendersene conto. I primi a subire gli effetti del “pasticciaccio” Gelmini-Tremonti sono stati docenti e alunni della scuola primaria, che sotto l’egida (o dovremmo dire “l’egìda”, come il nostro ministro?) del maestro unico, hanno visto scomparire il tempo pieno, distruggere i moduli, eliminare le compresenze, aumentare il numero di alunni per classe. La scuola primaria, che rappresentava un fiore all’occhiello del sistema dell’istruzione pubblica italiana, che in molti quartieri dove mafia, ‘ndrangheta e camorra dettano legge, regole e tempi di vita, rappresenta l’unica presenza dello Stato e l’unica speranza di una vita diversa, è stata devastata.

Poi è toccato a quella superiore, dove alla diminuzione del tempo scuola, dovuta soprattutto alla decurtazione delle ore delle materie umanistiche (italiano, latino, diritto, storia, geografia e filosofia) e all’abolizione dei laboratori, non è corrisposto alcun ripensamento dei programmi. Nel frattempo si è proceduto ad accorpare le classi, che secondo le indicazioni del Ministero devono essere formate adesso da non meno di 27 alunni, nonostante la legge sulla sicurezza, mai abrogata, preveda un numero massimo di 25 alunni per classe (con uno spazio di 2 mq per alunno e insegnante). E gli alunni diversamente abili? Dopo anni di battaglie, perché a tutti fossero garantite le stesse opportunità di formazione, il taglio agli organici degli insegnanti di sostegno ha negato ai bambini e ai ragazzi con difficoltà fisiche e/o mentali un supporto indispensabile per la loro crescita umana e culturale.

Il governo ha fatto cassa a spese dell’istruzione pubblica e in deroga alle regole della Costituzione. Il riordino della scuola superiore è stato, infatti, imposto  prima che l’iter legislativo fosse completato ed è stato definito illegittimo da due sentenze del TAR, una delle quali prescrive oggi agli istituti tecnici e professionali di ritornare indietro sulla zelante applicazione dei tagli “forfettari” alle classi seconde, terze e quarte, effettuati nonostante l’applicazione della riforma riguardi solo il primo anno. Intanto nelle scuole la situazione sta diventando insostenibile: classi strapiene di alunni (fino a 40 in edifici spesso fatiscenti!) e prive di supplenti, istituti poco sicuri, distribuzione in un numero minore di ore dello stesso carico di lavoro previsto nei vecchi indirizzi, mancanza di assistenza agli alunni diversamente abili, mancanza di sorveglianza causata dalla diminuzione dei lavoratori ATA.

Ieri, gli studenti, che si erano dati appuntamento su facebook, hanno invaso le piazze di tutta Italia. Con loro tanti lavoratori della scuola e dell’università, ormai organizzati in comitati e coordinamenti, abituati a riunirsi in assemblea, pronti a votare mozioni contro la riforma nei collegi dei docenti e a non collaborare con chi sta distruggendo tutto ciò in cui hanno creduto e per cui hanno lavorato tanto, ostinati nel non accettare che si possa migliorare la qualità della scuola togliendo e non aggiungendo risorse. Per la prima volta nella storia dell’Italia democratica questi lavoratori hanno sentito il sapore amaro del licenziamento, si sono sentiti umiliati come professionisti e come persone, abbandonati dai sindacati confederali che, con l’eccezione della CGIL, hanno firmato senza colpo ferire accordi vergognosi e sottoscritto testi di legge abominevoli.

Da ultimo hanno visto ridurre a carta straccia il loro contratto, bloccato per tre anni, e sparire per lo stesso periodo gli scatti di anzianità, con una perdita che, a fine carriera, toglierà tra i 20.000 e i 40.000 euro ad ogni lavoratore in relazione agli anni di servizio oggi maturati e avrà pesanti conseguenze sulle pensioni. E nelle università i giovani ricercatori vedono come unica prospettiva quella di un precariato permanente, in facoltà che sono in mano a pochi baroni. Perché tanto accanimento? Che il sistema dell’istruzione pubblica italiana andasse riformato non c’erano dubbi.

Da oltre dieci anni, infatti, il subdolo affermarsi della logica della scuola-azienda mina alle basi l’idea di una scuola pubblica e democratica e, di certo, anche l’università ha bisogno di cambiamenti strutturali di grande portata. Ma l’attacco frontale, senza possibilità di confronto, operato da questo governo, può essere compreso solo se inserito in un quadro più ampio: quello del progressivo scardinamento dello stato sociale e dell’abolizione dei diritti sindacali, quello della creazione di una società divaricata, con un netto distacco tra chi ha mezzi economici e reti di conoscenze personali e chi non ne ha, quello dell’affermazione di un sistema economico malato che premia la finanza selvaggia e uccide le classi medie e basse.

No, questa “controriforma” non è un caso, come non è un caso ciò che è accaduto a Pomigliano, dove per la prima volta due sindacati hanno firmato, senza trattare, un accordo vergognoso imposto con il ricatto da un’azienda, la Fiat, che tanto è costata ai cittadini italiani, nel quale il diritto allo sciopero e alla malattia vengono messi in discussione e in cui si deroga rispetto agli accordi sottoscritti nel contratto nazionale. I professori come i metalmeccanici, insomma, vittime della politica senza scrupoli di questo governo. Forse per questo li vedremo sfilare insieme, in corteo, a Roma, sabato 16 ottobre, per difendere il diritto al lavoro e al contratto. E sarà una giornata di sole.

Katia Perna -ilmegafono.org