Morire per fame in Europa nel 2018. Qualcuno si è accorto qualche giorno fa che tutto questo è ancora possibile e assolutamente quotidiano. Mentre la politica nazionale rimane concentrata sulle trame e le strategie per la conquista del governo della nuova legislatura, il mondo reale, quello degli esseri umani, sprofonda nelle rive limacciose della miseria disumana. A Pozzallo, nel profondo sud siciliano, luogo di approdo dei migranti, il destino tragico di un ragazzo ci ha sbattuto in faccia spietatamente tutte le responsabilità di questa parte di mondo.

Si chiamava Segen, aveva solo ventidue anni ed era eritreo. Scappato da un Paese segnato da un regime feroce, Segen aveva seguito la via di tanti altri connazionali, ossia la fuga verso un mondo libero dove potersi rifugiare. E come tutti era arrivato in Libia, la nazione di mezzo, il porto, l’ultimo scoglio prima di quel mare che conduce all’Europa. La Libia, il luogo dei lager e delle violenze, dei diritti negati, delle umiliazioni, dello sfruttamento, degli stupri razziali, dell’odio etnico, della non applicazione delle convenzioni a tutela dei diritti umani. La Libia, terra senza uno Stato vero, dilaniata dall’instabilità eppure così tanto riconosciuta e talmente rispettata dalle autorità italiane ed europee da consentirle di gestire i flussi migratori e le operazioni di soccorso in mare.

In quell’inferno che è realmente la Libia, Segen ci è rimasto a lungo, per ben 19 mesi, dentro uno di quei maledetti e famigerati centri di detenzione, dentro quelle fabbriche dell’orrore che trattengono i migranti con l’avvallo compiaciuto dell’Europa e soprattutto dell’Italia. Segen era riuscito ad andare via, a salire su un barcone, con le poche forze rimaste, trascinato solo dalla speranza di farcela, di arrivare in Italia e riuscire ad essere salvato. Lui che era ormai allo stremo, denutrito, affamato, scheletrico. È arrivato a Pozzallo, ma il suo sogno di salvezza si è spento nell’ospedale della vicina Modica. Non ce l’ha fatta. Segen è morto portandosi con sé la speranza di una vita migliore.

Ma la sua non è una morte casuale, non è un incidente. Lo ripetiamo da tempo: questi sono omicidi, dei quali la violenza dei lager e la fame sono solo gli esecutori materiali, mentre i mandanti bisogna cercarli altrove. E prima di puntare il dito sull’Europa, dovremmo pensare bene di guardare in casa nostra. Marco Minniti, il governo Gentiloni e quello di Matteo Renzi, così come le forze di opposizione (adesso in procinto di governare) sempre più reazionarie e xenofobe, hanno sulla coscienza non solo Segen ma molti di quelli come lui che sono morti prima di arrivare. C’è chi in questi ultimi anni e soprattutto in questi ultimi mesi, nella spasmodica voglia di inseguire la destra e soddisfare gli istinti razzisti degli elettori, si è beato delle proprie politiche in materia di immigrazione, agitando festosamente i dati che parlavano di arrivi dimezzati.

Non una parola sulla tragicità e sul sangue che macchiavano e macchiano quelle cifre spietate, fredde, funeste. Dimezzare gli arrivi grazie agli accordi con la Libia, vuol dire che un gran numero di persone che potevamo salvare le abbiamo lasciate morire o subire le peggiori torture e violenze in Libia. Abbiamo chiuso gli occhi e il cuore in nome di che cosa? Di un egoismo ignorante, di un calcolo elettorale, di una pochezza cialtrona. La politica non sa gestire un fenomeno ampiamente gestibile e allora sceglie di costruire paure, suggerisce falsità, ingigantisce problemi e poi, quando i cittadini hanno ben appreso la crudeltà, allora sceglie di seguirli, rinuncia a rieducarli, scioglie le briglie ai peggiori abomini. Li legalizza.

Segen non è morto per la fame, Segen è stato ucciso soprattutto dall’indifferenza della politica europea, dall’odio costruito dalle destre e da un nugolo di mass media criminali, ma anche dalla inettitudine di una sinistra incapace di portare avanti con coraggio i propri storici valori di solidarietà, internazionalismo, antirazzismo. Una sinistra che è diventata speculare alla destra, concorrendo con essa sul terreno della chiusura e del rifiuto dell’accoglienza.

Segen è solo uno, come uno era Aylan. Ma dietro i loro nomi ci sono centinaia di migliaia di vittime, centinaia di migliaia di dolori, orrori, atrocità compiute sotto lo sguardo freddo e crudele delle istituzioni del nostro continente. Stiamo riattivando, poco meno di un secolo dopo, i germi di ideologie e logiche che hanno portato a uno dei periodi più oscuri della storia dell’umanità. Con la differenza che il genocidio questa volta ha preceduto le idee. E non è un genocidio compiuto da una nazione contro una sola etnia, ma sono più genocidi compiuti da diversi carnefici in diverse nazioni e contro vari popoli. La Siria, la Libia, lo Yemen, i migranti che muoiono in mare, le violenze in Nigeria e in Eritrea e in altri luoghi.

Italia, Europa e le potenze occidentali sono complici o sono responsabili dell’orrore. In mille modi e con diversi volti. E lo sono anche i cittadini, i giornalisti e il loro ordine colpevolmente inerte, i magistrati che rilasciano dichiarazioni di accusa su chi presta soccorso in mare e lanciano sospetti (ai quali però non seguono né inchieste né provvedimenti giudiziari), i parlamentari che votano come i loro capi partito impongono e non si dissociano, gli imprenditori che sfruttano e poi accusano le vittime di quello sfruttamento, le istituzioni locali che aizzano le folle per rifiutare un principio di accoglienza che dovrebbe essere obbligatorio e che nulla toglie al loro territorio, e così via. Siamo tutti responsabili quando stiamo in silenzio, quando non esprimiamo critiche, quando ci giriamo dall’altra parte.

Fino a quando sarà possibile tutto questo? Fino a quando pensiamo che potremo sentirci non coinvolti e quindi assolti? La verità è che siamo già coinvolti. La Storia ci sta già condannando. Possiamo anche far finta che non sia così, ma la Storia ci ha già guardato in faccia e ha gli occhi di Segen che ci fissano e che lentamente si chiudono in un letto di ospedale, sopra un corpo scheletrico che aveva soltanto un’anima e una speranza per aggrapparsi alla vita.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org