L’esito del voto è stato un vero shock per il Partito Democratico. Ed è stato sinceramente toccante lo sgomento dei suoi elettori, smarriti tra un intontito pessimismo cosmico e una diffusa volontà di espatrio. Eppure tutto ciò era ampiamente prevedibile. Soprattutto avrebbero dovuto prevederlo il Pd e le altre forze alla sua sinistra. Che i 5 stelle sarebbero balzati oltre il 32% e che il centrodestra sarebbe cresciuto non era certo un mistero. Magari dalla Lega ci si aspettava qualcosa in meno (14-15%), ma pensare che il Pd non crollasse o che Liberi e Uguali potesse avere credibilità per intercettare il voto dei delusi oppure che Potere al Popolo potesse arrivare al 3% (così come l’irriducibile Bonino) era una follia da dilettanti.

Il post voto, pertanto, sta assumendo toni davvero grotteschi. Matteo Renzi è stato il protagonista assoluto anche del day after. Il Pd, stordito e barcollante, continua a dare colpi di pala sotto il proprio terreno, al punto che se si rivotasse domani probabilmente il risultato sarebbe ancora più drammatico. La conferenza del segretario dimissionario (così pare) del Pd è stata imbarazzante. Al limite del surreale. Da un segretario che, al netto degli errori passati, ha usato metodi dittatoriali nella composizione delle liste e nell’assegnazione dei collegi, personalizzando ancora una volta la campagna elettorale, ci si attendeva un tono più basso, una maggiore umiltà, l’ammissione netta della sconfitta e un passo indietro senza condizioni.

Dopo un risultato che mostra 7-8 punti percentuali e otre 2 milioni di voti in meno a Camera e Senato rispetto alle politiche del 2013, ci attendevamo autocritica e moderazione, con la palla passata al suo partito, per valutare insieme e condividere con calma le soluzioni migliori. E invece Renzi ha alzato la tensione e continuato con la sua tracotanza, trasformando la bocciatura degli elettori in una resa dei conti interna. Ha annunciato di dimettersi ma sfidando chi nel partito non ha preso bene le sue scelte. Ha deciso per tutti, in un solo istante, la strategia che il Pd dovrà seguire nelle prossime consultazioni con il presidente della Repubblica. Ha perfino attaccato Mattarella, contestando il periodo scelto per il voto, ma soprattutto ha continuato a richiamarsi al referendum costituzionale del 2016, quello che lo portò alle dimissioni da premier.

Un referendum che, se fosse passato, oggi avrebbe consegnato il Paese a un governo di centro-destra a guida Salvini, con una sola Camera e una maggioranza assoluta per cinque anni. Stabilità sì, ma in uno scenario horror. Insomma, l’ex sindaco di Firenze sembra non essersi minimamente reso conto di cosa abbiamo rischiato, di cosa sia il Paese reale e soprattutto dei tanti errori commessi e delle motivazioni di un voto che da sinistra si è spostato e ha premiato i Cinque Stelle. Un risultato che ha espresso una chiara esigenza di rottura, una frustata di protesta per scuotere un centrosinistra ripiegato sulla megalomania di Renzi e su un pericoloso fanatismo che ne ha fomentato l’ego.

Adesso, mentre si tenta di capire quali scenari possano nascere per l’Italia, l’establishment del Pd sembra aver deciso di restare all’opposizione, rifiutando qualsiasi appoggio esterno ai Cinque Stelle. Molti elettori democratici sono d’accordo con questa idea di “purezza” e la ragione principale sembrerebbe essere quella di non perdonare i grillini per le pesanti (e spesso onestamente e ingiustamente generalizzate) accuse al Pd e ai suoi militanti ed elettori. Ma è davvero questo il problema? Non è che invece è proprio questa presunzione di purezza e di superiorità, unita a una fragile suscettibilità, ad aver portato il Pd al collasso politico attuale, dove ora trionfano un sentimento diffuso di fallimento e una visione nichilista che induce molti militanti a ripetere che la “sinistra è morta”?

Voglio dire, se dovessimo misurare la politica solo con gli insulti non sarebbe possibile alcun dialogo nemmeno dentro uno stesso partito. Nessuno oggi è immune alla logica dell’offesa, della provocazione stupida, dell’accusa volgare. Lo stesso Renzi non è un verginello, non è stato mai tenero con i suoi avversari, né interni né tantomeno esterni. Allora il non voler dialogare con i Cinque Stelle è del tutto legittimo purché però abbia motivazioni concrete sui programmi e sulle visioni. Altrimenti appare solo come una chiusura pregiudiziale ed egoistica che rischia peraltro di consegnare il Paese a una possibile alleanza a destra, con conseguenze potenzialmente preoccupanti.

Ad un’osservazione critica e scevra da appartenenze, una motivazione unicamente pregiudiziale sembrerebbe più un atto di egoismo politico, che produrrebbe un forte isolamento, con una identità per di più da ricostruire. Sì, perché dire che la sinistra è finita non significa nulla. Semplicemente perché la sinistra, intesa come elettorato, è viva e vegeta. Solo che ha perso completamente il rapporto con chi avrebbe dovuto rappresentarla politicamente. Se tocchi il lavoro, spogliando di tutele i lavoratori dentro una riforma troppo sbilanciata, se metti in campo una politica ambientale che minaccia i territori con trivelle e progetti inquinanti ancora legati al fossile, se riformi la scuola togliendole dignità, se sui migranti agisci, con Minniti, con misure e azioni che sono la fotocopia di quelle che la destra ha nel suo programma, è chiaro che l’elettorato di sinistra lo perdi. Anche il più moderato.

Ma soprattutto, se si gestisce un partito come fosse proprietà di chi lo guida e davanti alle critiche si reagisce istericamente contro tutto e tutti, senza ascoltare chi cerca di far ragionare un gruppo dirigente che di sinistra ha ben poco, poi non ci si può lamentare di una bastonata elettorale sulla quale, a quanto pare, si continua a non riflettere. Non è questione di nomi, di Calenda o Emiliano o Chiamparino, ma di tornare realmente tra la gente, andando nei territori ad incontrare non i dirigenti di azienda e i manager, ma i lavoratori, i precari, i disoccupati, la classe media devastata da anni di solitudine e impoverimento, gli sfruttati, i cittadini impegnati a tutela dell’ambiente e contro le mafie. Non basta una legge sul caporalato o sugli ecoreati se poi non si interviene alla radice dei problemi e delle situazioni.

La conferenza stampa e l’atteggiamento post voto di Renzi sono preoccupanti perché escludono una vera presa di coscienza. Si continua a combattere una guerra in famiglia senza rendersi conto degli errori che hanno fatto crollare la casa. Anche molti militanti sembrano aver perso lo spirito critico che animava un tempo i grandi partiti di sinistra. Nel Pci, noto per il suo verticismo, c’era comunque spazio per il dialogo acceso, per il confronto, per il dibattito. E i leader non erano censori che davano del gufo o del vecchio a chiunque criticasse. Si discuteva e i leader erano stimati per la loro qualità politica e non idolatrati come concorrenti di un talent.

La sinistra non è finita. Semplicemente, da anni, non è più dentro partiti che, per colpa dei loro gruppi dirigenti, si fa fatica a considerare di sinistra. La si smetta allora con l’arroganza, con i diktat, i nomi, con gli uomini della provvidenza, con le altre forme folkloristiche di sinistra che continuano a raggranellare briciole e brutte figure. Si apra un confronto, non tra le segreterie dei partiti, ma tra l’universo che gravita a sinistra, nella società, e che magari ha scelto di votare altrove solo per creare una frattura, far crollare i giganti di argilla e ricostruire tutto da zero o quasi. Un rischio grosso, ma forse l’unica possibilità per rifondare un’idea riformista e non disancorata da quei valori storici ancora validi in un mondo di feroci diseguaglianze.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org