Esiste un razzismo sottile, vellutato, ma ben radicato nella cultura di massa. Lo si può incontrare nelle aree più degradate, nelle stazioni spesso malmesse e lasciate al loro destino, ma anche davanti ad una fumante tazza di tè nei lucenti salotti perbene. Le sue manifestazioni migliori vengono fuori soprattutto in contesti drammatici come quello del recente tragico deragliamento del treno regionale 10452 a Pioltello. Quante volte si sente la frase: “Io non sono razzista, ma…”. Invisibili aculei di ghiaccio trafiggono il respiro al solo leggere, ad esempio, queste testimonianze raccontate dal giornalista Luigi Ambrosio su Radio Popolare (leggi qui), quasi subito dopo l’incidente ferroviario alle porte di Milano.

Purtroppo gli episodi di razzismo, formale e sostanziale, sono quotidiani. Il caso più eclatante di qualche giorno fa racconta la vicenda – avvenuta a Cantù, in provincia di Como – del medico di origini camerunensi, Andi Nganso, che si è visto rifiutare una visita da parte di una paziente, la quale lo ha insultato dicendogli «io non mi farò mai toccare da un medico negro». Non è allora un caso che il 30° e ultimo Rapporto Eurispes ci racconta un’Italia insicura, confusa e malinformata. Un dato lampante che si evince dal rapporto è quello che riguarda proprio la percezione sugli stranieri: un italiano su quattro è convinto che gli stranieri in Italia sono all’incirca il 24%, quando invece l’incidenza reale della popolazione straniera nel Paese è dell’8%.

La paura genera diffidenza e la diffidenza è il fattore principale che mette in moto i meccanismi della discriminazione e dell’emarginazione. Ma la paura stessa è il risultato di una profonda sfiducia. La sfiducia, Desmond Tutu, probabilmente non sapeva nemmeno cosa fosse. Correva l’anno 1985 – esattamente 33 anni fa oggi – quando Tutu divenne il primo arcivescovo nero di Città del Capo. Siamo in Sudafrica, nei pieni anni ‘80, e il regime dell’apartheid è ancora presente. Contemporaneamente, negli altri stati africani, il fenomeno della segregazione razziale s’era quasi del tutto estinto. Solo un anno prima Tutu ricevette il Nobel per la Pace come riconoscimento per l’incessante impegno nella lotta contro l’apartheid.

Ma bisognerà attendere le elezioni del ‘94, con la vittoria di Mandela, per assistere definitivamente alla fine della politica di segregazione, legalmente in vigore in Sudafrica dal 1948 al 1991. Dovremmo forse soffermarci un po’ di più sulla storia di Tutu e riflettere sulla lezione più interessante che ci ha lasciato: il concetto di rainbow nation, una fascinosa storia di convivenza pacifica tra persone, quindi comunità, di colori diversi. Pura utopia, almeno per ora. Oggi in Sudafrica, a distanza di quasi tre decenni dalla fine del regime segregazionista, sta penetrando sempre più profondamente una pericolosa corrente xenofoba causata da un alto tasso di disoccupazione, contemporaneamente ad un’immigrazione via via sempre più importante.

Il Sudafrica rimane pur sempre il “sogno americano” dalla prospettiva di molti altri Paesi africani. Ma la dura legge delle migrazioni segue logiche puramente economiche e di mercato oppure, molte altre volte, è l’unica opzione per la sopravvivenza: nessuno abbandonerebbe il luogo in cui è nato se non fosse costretto a trovare altrove condizioni di vita migliori.

Il Sudafrica, nonostante rappresenti l’economia più promettente tra tutti gli altri Paesi del continente africano, rimane una realtà lacerata da una forte intolleranza fra le comunità di colori diversi. Dopo la fine dell’apartheid, l’African National Congress, il principale partito politico e forza del nazionalismo nero che ha governato ininterrottamente dal ‘94 ad oggi, si è gradualmente trasformato in un centro di potere man mano sempre più corrotto che ha progressivamente quasi annientato la speranza portata da Nelson Mandela con le prime elezioni libere.

La storia, si sa, non è nuova: è un susseguirsi di corsi e ricorsi. Razzismo e xenofobia anch’essi sono fenomeni globali e, come le migrazioni, si verificano a qualsiasi latitudine, ma sono anche la conseguenza fisiologica di forti disuguaglianze. L’ondata migratoria in Sudafrica, dopo la fine della segregazione razziale, ha portato forza lavoro qualificata e, allo stesso tempo, le multinazionali presenti sul territorio hanno iniziato ad ingaggiare quasi esclusivamente personale straniero per il basso costo. Questo non ha fatto altro che amplificare l’insofferenza da parte dei sudafricani neri nei confronti degli immigrati africani accusati di rubare i posti di lavoro.

Un’interminabile guerra tra poveri. Non cesseranno d’esistere, le discriminazioni. Né qui né altrove, né ieri né domani. Come diceva qualcuno, «fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi noi continueremo a lottare».

AdrenAlina -ilmegafono.org