Fino a poche settimane fa in Siria la vittoria, seppure effimera, del presidente Bashar al Assad era stata data per scontata. La guerra civile, iniziata nel 2011, sembrava ormai vicina alla fine, con tutte le sue aberrazioni e devastazioni e con la divisione, di fatto, del paese in diverse aree di influenza. Tra queste, quella curda, che è stata autoproclamata Repubblica della Siria del nord (Rojava) e dove si trova il cantone di Afrin. I bombardamenti e gli scontri, invece, continuano e ci sono zone della stessa provincia di Damasco ancora in mano ai ribelli, come il Ghouta orientale.

Secondo la Ong Save The Children, in quell’area sono circa 400 mila le persone sottoposte ad assedio e bombardamenti quotidiani. In tutto il paese sono ancora oltre 2 milioni le persone, la metà delle quali bambini, in aree difficilmente raggiungibili o “sotto assedio”, dove nessuna agenzia è riuscita a entrare. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, Ong con sede a Londra, ha denunciato nei giorni scorsi che le forze governative hanno attaccato il Ghouta orientale con armi chimiche, provocando 21 morti. Si tratterebbe dell’ennesimo attacco con armi proibite da tutte le convenzioni internazionali, ma il governo di Assad ha sempre negato di averle usate.  Nel frattempo, decine di persone continuano a morire ogni giorno da entrambe le parti (dei ribelli e del regime), mentre le altre potenze attive nella regione stanno a guardare, ognuna con i suoi interessi e le sue ambizioni.

La Turchia ha deciso pochi giorni fa di rientrare “in guerra” con un’operazione nel cantone curdo-siriano di Afrin. Il nome dell’azione militare è paradossale: “ramoscello d’ulivo”. Il nuovo intervento turco ha sollevato polemiche internazionali, ma è stato sostanzialmente accettato dalla Russia, principale alleato del regime di Damasco insieme all’Iran e sembra che anche gli Stati Uniti non abbiano opposto resistenza. Questo nonostante le tensioni ormai presenti da tempo tra Washington e l’alleato turco e nonostante la sua vicinanza ai curdi delle Ypg, le unità di protezione popolari del Rojava.

Washington ha infatti sostenuto con forza l’offensiva delle Ypg contro lo Stato islamico a Manbij prima e Raqqa dopo, ma ora non ha usato toni troppo forti per impedire l’operazione turca ad Afrin. Il segretario di Stato, Rex Tillerson, si è limitato a invitare Ankara alla “moderazione”, così come hanno fatto da Mosca. Come scrive il giornalista canadese Gwynne Dyer in un articolo pubblicato da “Internazionale”, quando le grandi potenze invitano alla “moderazione” vuol dire «che non hanno intenzione d’intervenire per evitare che accada qualcosa di brutto».

Il regime di Damasco, a sua volta, non tollera la presenza dei carri armati turchi sul suo territorio, ma non può che accettare la decisione russa e iraniana di non intervenire perché «dipende ancora dal loro sostegno militare», aggiunge Dyer. «Inoltre, sospetta che in realtà gli Stati Uniti stessero cercando di creare un protettorato curdo nella zona nordorientale della Siria come base per controbilanciare la presenza russa nel paese – spiega il giornalista -. La verità è che tutti mentono, tutti hanno obiettivi nascosti e che il bene del popolo siriano è l’ultima cosa che interessa loro». I bombardamenti e gli scontri, infatti, continuano e le vittime sono gli innocenti, ignari delle strategie delle grandi potenze.

G.L. -ilmegafono.org