Tutto scorre nel mondo attuale dell’informazione frenetica, rapida, da consumare in poche ore o qualche giorno, sul tavolo imbandito dell’emozione e della rabbia. Casi su casi, notizie, fatti drammatici che ci passano davanti, si lasciano commentare, condividere, sezionare e poi piombano nel buco nero dell’oblio o, molto più spesso, in un angolo polveroso e abbandonato della memoria quotidiana. Una velocità che pensiamo di poter gestire e che invece ci sfugge di mano e produce squilibri nella nostra coscienza, narcotizzandoci, abituandoci a osservare tutto e in qualche modo accettarlo. Passivamente.

Perché è così che rimaniamo, pur venendo riempiti di informazioni gravissime, che ci raccontano ingiustizie, drammi, situazioni a cui spesso potremmo reagire, rispetto a cui potremmo provare a fare qualcosa. L’informazione di consumo ci ubriaca, ci fa sentire attivi anche se in realtà non lo siamo, chiusi dietro le tastiere o seduti comodamente nei nostri salotti. Incazzati, ma immobili. Pronti a pigiare un pulsante per liberarci delle nostre ansie, come se spegnendo tutto si spegnessero anche i problemi e le ingiustizie. Poi, presi dal nostro quotidiano dimentichiamo ogni cosa e non ci occupiamo più di quello che avviene o degli esiti di un fatto di cui abbiamo succhiato tutta la polpa delle possibili indignazioni.

Così accade che ci si dimentichi completamente, ad esempio, dell’evoluzione delle indagini sul presunto stupro di Firenze compiuto da due carabinieri. Oppure, andando su fatti ancora più recenti, accade che nessuno si occupi quasi più della donna licenziata da Ikea, che non ci si chieda nemmeno se l’azienda svedese, che aveva annunciato di voler fare luce sulla vicenda, abbia poi verificato e se abbia cambiato decisione o meno. Ne parlano in pochi e in pochi raccontano dello sciopero, delle lacrime della donna ancora senza lavoro, di un mondo del lavoro che di storie come queste ne vive ogni giorno, raccontate, mediate, mostrate nei suoi effetti più tristi.

Storie di cui ci si occupa per qualche ora per poi tornare a camminare in avanti, come se ogni narrazione fosse una brutta abitudine rispetto alla quale ci si sente impotenti. Come una tossicodipendenza o un alcolismo cronici, che sappiamo ci fanno male ma da cui non riteniamo possibile liberarci. E questo vale anche per altri temi, per gli incidenti sul lavoro così come per lo sfruttamento, per il caporalato, per i lavori a consegna che arruolano eserciti di fattorini privi di tutele e di minimi garantiti. Ci scordiamo tutto. Dimentichiamo per sopravvivere. Perché probabilmente a qualcuno, mentre riceve da un fattorino una pizza ordinata con una app, dà fastidio sentirsi parte integrante di quel sistema per il quale si era indignato il giorno prima davanti a un servizio televisivo o a un articolo sul web.

Allo stesso modo, ad esempio, cerchiamo di nascondere alle nostre coscienze quel che avviene in Libia o nel Mediterraneo, perché fa male, perché ci sbatte in faccia una vergogna mostruosa di cui la storia e i nostri discendenti ci chiederanno spiegazioni. Pertanto ci risulta più facile indignarsi o rimanere sconvolti davanti all’orrore delle foto e delle testimonianze, ma poi non cambiare una virgola dei nostri atteggiamenti, rimanere inerti e magari continuare a dirci soddisfatti per la diminuzione degli sbarchi e degli arrivi nel 2017. Abbiamo bisogno di credere che quella notizia, quel racconto di uno stupro o di un naufragio o degli omicidi e torture nei lager libici, si esauriscano con il click sul nostro dispositivo.

Perché non farlo significherebbe costringersi a riflettere, a rivedere le nostre convinzioni, a ridisegnare la nostra coscienza e i nostri comportamenti, a rinunciare a quell’ipocrita e vuota credenza per cui abbiamo fatto abbastanza, come Paese. Tutta la nostra retorica, che ci spinge a celebrare i salvataggi in mare (ignorando sistematicamente il grande apporto delle Ong) e a dimenticare l’orrore che abbiamo costruito in Libia e di cui siamo complici, verrebbe spazzata via con un colpo di vento. Saremmo costretti a punirci, ad autoaccusarci, a rinunciare alla nostra tanto amata autoassoluzione.

Per questo l’informazione che preferiamo è quella di consumo, usa e getta, frenetica, lontana da un approfondimento spietato, spogliata dall’orrore della verità e dalla necessità della riflessione. Preferiamo servirci di una informazione che non dia né richieda il tempo di essere metabolizzata, messa in circolo e spinta non solo nel nostro stomaco, ma anche nel nostro pensare quotidiano, al punto da stimolare non soltanto l’indignazione virtuale ma anche quella attiva e partecipante. Allora, al di là delle fake news, degli inganni strumentali, abbiamo soprattutto bisogno di capire che tipo di informazione vogliamo fare e ricevere.

Dobbiamo chiederci fino a che punto questa orgia di notizie, capaci di raggiungerci in un attimo e di scappare un attimo dopo, possa contribuire a svolgere la funzione nobile dell’informazione che non è solo quella di raccontare e sollecitare la formazione di opinioni, ma anche quella etica di contribuire a migliorare il mondo in cui viviamo, denunciandone storture e ingiustizie (e relative responsabilità) che, sia chiaro, non solo sopravvivono alla nostra distrazione, ma appartengono a tutti noi. Anche a coloro che si sentono assolti e che, per dirla alla De Andrè, sono lo stesso coinvolti.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org