• A Siracusa sono tornate le bombe e le fiamme. Gli attentati incendiari contro esercizi commerciali hanno conosciuto un aumento preoccupante negli ultimi tempi. A ciò si è aggiunto il rogo ai danni dell’auto del sindaco, Giancarlo Garozzo. Non si sa ancora se i tanti atti verificatisi in queste settimane, nel capoluogo e in qualche altro comune della provincia, siano tutti quanti di matrice mafiosa, ma sta di fatto che la città si sente nuovamente ferita. Qualcuno parla perfino di ritorno al passato, a quel periodo a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 in cui il capoluogo aretuseo e anche la provincia furono sottoposti a una asfissiante pressione criminale. Il timore è legittimo, anche se il paragone, storicamente, è un po’ forzato. Perché quegli anni, per chi li ha vissuti, erano un’altra cosa, terribili, angoscianti.

Erano anni nei quali i clan mafiosi controllavano tutto e si contendevano il territorio per mezzo di una ferocissima guerra di mafia. Decine di morti, omicidi in mezzo alla strada, nei mercati, anche in pieno giorno, nei lidi balneari affollati di gente. Era la Siracusa dei boss di spessore, della guerra fra le cosche della provincia e quelle cittadine, era l’epoca in cui la “provincia babba”, come la chiamavano per indicarne la quietezza, mostrava tutta la violenza che si celava dietro quella falsa etichetta. Una provincia dove la droga correva a fiumi dalla parte nord a quella sud, dove gli appalti ingolosivano le potenti famiglie catanesi e i loro sodali corleonesi, con le speculazioni, il riciclaggio di denaro sporco, gli agguati, i casi di lupara bianca e tutto il resto.

Eravamo anche agli albori della lotta al racket, una lotta che proprio a Siracusa conobbe i primi esperimenti. Nella città siciliana e in altri comuni della provincia, ogni notte, senza soluzione di continuità, saltavano uno o più negozi. Chi non pagava il pizzo veniva colpito immediatamente. Ci furono proteste, azioni coraggiose e polemiche, come le ronde di commercianti che, nel paese di Palazzolo Acreide, uscivano ogni notte per difendere i propri negozi. Nacquero un osservatorio e le associazioni antiracket, ci furono le prime denunce, i primi processi e le prime costituzioni di parte civile. Erano anche anni nei quali la lotta alla mafia aveva un’importanza centrale a livello nazionale.

Se ne parlava nelle strade, nei dibattiti politici, sulla stampa, in tv, nelle scuole. Libero Grassi fu il primo martire della lotta al racket, mentre poco dopo arrivarono Tangentopoli e le stragi di Capaci e via D’Amelio. La società civile reagì, in Sicilia come anche a Siracusa. Oggi, invece, la società civile, dopo un lungo sonno, si è destata e si è riscoperta perplessa e sgomenta. Dopo aver impiegato questi anni, con qualche eccezione, a prendersela con i migranti o a ridurre tutto il dibattito politico agli sprechi della politica, magicamente ci si è accorti che il racket delle estorsioni esiste ancora. Che la mafia non è scomparsa.

Forse qualcuno si era illuso che il silenzio significasse pace e legalità, nonostante chi da sempre è impegnato nella lotta, come ad esempio il responsabile provinciale antiracket Paolo Caligiore, non abbia mai smesso di far capire che la situazione è ancora gravissima e che le istituzioni non fanno abbastanza. A Siracusa la pace apparente era solo il segno di un’attività criminale florida, di una solitudine maggiore in cui si trovano le vittime e, per certi versi, anche le associazioni antiracket. Se in una città o in una nazione si smette di parlare di mafia, se l’argomento non interessa più di tanto, se ci si dimentica a più livelli della presenza massiccia e capillare dei clan, ciò inibisce o indebolisce le volontà di denuncia dei cittadini e ostacola il lavoro delle realtà antiracket.

Eppure le forze dell’ordine e la magistratura fanno il loro dovere, ma ciò non basta. Perché gli strumenti sono insufficienti, perché abbiamo un Paese che ha dimenticato culturalmente la lotta al crimine organizzato nei territori, ma soprattutto perché le leggi esistenti fanno sì che molti dei mafiosi arrestati in passato oggi siano tornati in libertà e abbiano saldamente ripreso in mano le loro attività criminali. Nel frattempo, altri clan si sono rafforzati, perché la società nel suo insieme, cioè cittadini, soggetti culturali e soprattutto istituzioni politiche non hanno svolto appieno il loro dovere. Quando le famiglie criminali sono state colpite duramente, falciate via dallo Stato ed il momento sembrava propizio per strappare via anche i piccoli fili d’erba rimasti, non ne abbiamo approfittato.

Le periferie, i luoghi nei quali il controllo del territorio è maggiore, sono state dimenticate e lasciate ugualmente fuori da ogni progettualità politica e sociale. Abbandonate nelle mani dell’antistato e poi prese in considerazione usolo quando, in periodo elettorale, c’era da trasformare la miseria in voti. Nei luoghi decisionali non si è fatto abbastanza, anzi, dispiace scriverlo, ma non si è fatto nulla negli ultimi venticinque anni. Oltre all’azione repressiva, in città, c’è stato veramente poco altro. Non sono stati conquistati nuovi spazi di legalità, si è continuato a vivacchiare nell’inerzia, preferendo concentrarsi sempre sul centro, sul turismo, sulla vetrina luccicante e sul salotto lindo di Ortigia, dimenticando il resto.

La gente non si è sentita protetta, non ha vissuto il senso di un cambiamento, non lo vive da anni, non ha nemmeno sentito un clima di risveglio civile, come vi fu negli anni ‘90, perché il tema mafioso non è stato più centrale, prioritario. Non è tanto colpa di questo o di quel sindaco, ma è un problema culturale serio, nazionale e soprattutto locale. Ecco perché è normale che, nonostante l’impegno onesto, coraggioso, instancabile delle poche realtà antiracket attive (che peraltro non hanno conosciuto un ricambio generazionale come avvenuto in altre città), le denunce scarseggino.

La paura prevale. E i clan, nel momento in cui erano più deboli, hanno saputo adattarsi, cambiando strategie, cercando di imporre la tassa sul pizzo in maniera meno rude, più paziente, persino facendo sconti o accettando qualche dilazione per “fidelizzare” la loro “clientela”. Oggi che sono tornati più forti, recuperando le leve di comando, hanno ricominciato ad alzare la voce e a colpire con frequenza impietosa. Sono segnali angoscianti, ma non siamo affatto tornati agli anni ‘90. Siamo nel nostro tempo, con i metodi e le forme del nostro tempo.

Ciò che è cambiato siamo noi, la nostra disponibilità a reagire, la nostra forza, come società, di rifondare una coscienza civile antimafiosa esemplare che identifichi come primo nemico le mafie e i loro complici ad ogni livello: non solo questi quattro scassapagghiari, bulletti di quart’ordine che danno fuoco a una saracinesca o a una macchina, ma anche e soprattutto chi, in giacca e cravatta, si sta mangiando la nostra terra, speculando, cementificando, svendendo beni naturali di inestimabile valore, progettando impianti e strutture che servono solo a fare e a riciclare soldi.

La società civile e la politica dovrebbero fare e pretendere molto di più per essere pienamente credibili. Lamentarsi ex post è sciocco e inutile, così come serve a poco esprimere una scontata solidarietà o riempire le pagine dei giornali di promesse retoriche. Tutta scenografia, modi per mostrarsi civili agli occhi degli altri, potersi sentire utili per un istante e poi tornare alla vita quotidiana con la coscienza a posto, ma senza aver fatto nulla di concreto. Intanto la mafia prospera, sguazzando nel silenzio, nelle strade come negli scantinati umidi dell’affarismo, tenendo al contempo in scacco la gente con l’arma affilata della paura.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org