A guardare bene quello che avviene nel nostro Paese, a livello politico, sembra che il tempo si sia fermato da anni, congelato, ibernato. Al di là della novità di alcuni soggetti politici e di alcune alleanze, la palude nella quale l’Italia post 1992 è rimasta incagliata sembra piuttosto resistente. Sia chiaro, qualche cambiamento c’è stato, l’immagine ed alcune forme della politica sono mutate, ma il sistema in generale è rimasto immobile. Con gli stessi vizi, le stesse ramificazioni, persino gli stessi personaggi. Ciò che è cambiato, invece, è la sinistra italiana. Ed era prevedibile già nell’epoca del primo berlusconismo. Bastava osservare con critica lucidità alcuni comportamenti per accorgersi dei primi segni di una lenta metamorfosi.

Oggi, allora, lasciando perdere sia il farsesco e decrepito agire di Pd e centrodestra, così perfettamente in continuità con le peggiori attitudini del passato, sia le imbarazzanti isterie grilline e leghiste, è molto più interessante occuparsi dei turbamenti di una sinistra inquieta e ansiosa, sospesa tra il tentativo estremo di risorgere e la sua definitiva resa. Qualcosa è cambiato, dicevamo, e purtroppo in peggio. I numeri e il consenso, in questi anni, sono infatti diminuiti, la frammentazione è aumentata e l’ombra di un Pd che, indebitamente, si autodefiniva forza di sinistra e di governo ha reso sempre meno visibili i confini di un’area che pure, nella società, nel mondo associativo, del movimentismo e del volontariato, così come tra gli intellettuali e nelle stanze della cultura, è ancora viva, respira ancora.

Non si è mai spenta, nemmeno quando ha amaramente compreso di non poter più trovare sponde politiche convincenti o quando ha dovuto turarsi il naso oppure persino rinunciare a quel diritto di voto ritenuto sacro. Resiste culturalmente, ma nelle sue articolazioni politiche arranca, litiga, si rimescola, rimane un fronte piccolo con limitate rappresentanze in parlamento, una forza che a ogni appuntamento elettorale ha bisogno di cercare spinte unitarie, partorire complessi apparentamenti, con enorme sforzo di ricomposizione di rancori, invidie, passate divisioni. Così, in questo clima di pesante convivenza con la sconfitta, ci si ritrova molto più spesso e rapidamente uniti quando la vittoria, il successo riguardano storie e vicende lontane, per le quali si prova una nostalgica empatia.

Allora è capitato di vedere persone che, pur mantenendosi distanti sul tavolo della sinistra italiana, si sono trovati spesso a esultare insieme, una volta per l’elezione di Tsipras o la sua sfida ai potenti dell’Unione, un’altra volta per la vittoria di Lula in Brasile o per la vittoria del socialista Bill De Blasio alle elezioni a sindaco di New York o ancora per l’eroica lotta dei curdi in Siria. Ultimamente, poi, è stato possibile assistere a una romantica immedesimazione con la causa catalana, che con la sinistra, obiettivamente, non ha tanti punti di contatto.

La frattura fra Catalunya e Spagna, al netto dei terribili errori e delle inaudite violenze di cui sono responsabili il governo Rajoy e, in maniera indiretta, il re di Spagna, non è una questione che può essere inserita così facilmente nella storica visione internazionalista della sinistra. Forse se Barcellona non fosse stata così vicina su certe battaglie, se ad esempio non avesse manifestato a favore dell’accoglienza dei migranti, ci sarebbe stata meno empatia e la causa catalana sarebbe semplicemente stata vista come una delle tante rivendicazioni autonomiste che l’Europa vive da tempo in diverse nazioni. Rivendicazioni che spesso, peraltro, nascono da spinte destrorse e razziste, come quelle dei fiamminghi del Vlaams Belang in Belgio, ad esempio.

Insomma, cosa accade a questa sinistra che si innamora di tutto ciò che ha il sapore dell’autodeterminazione, anche quando quel sapore è diverso e non appartiene in senso stretto alla storia di questa area politica? Per quale motivo ciò che avviene, anche in modo un po’ confuso, guardando all’estero, poi si smarrisce quando in patria c’è da rimboccarsi le maniche e provare a liberare e diffondere idee ancora valide e vive che spesso rimangono impigliate nella rete di personalismi, nel fumo grigio delle segreterie o nell’isolamento anacronistico delle aree più radicali?

Non si va avanti nemmeno quando si ha la possibilità di provare un esperimento che raccolga chi da sinistra vuole cambiare il sistema politico attuale, come potrebbe essere quello siciliano, con l’accordo Navarra-Fava e la candidatura di quest’ultimo a governatore. Un progetto che probabilmente non potrà lottare per vincere, ma che potrebbe dare il via alla ricomposizione di una sinistra siciliana oggi ridotta ai minimi termini e dettare una strada nuova per quella nazionale. Qui il punto non è la condivisione politica della scelta di Claudio Fava e delle modalità con le quali è avvenuta. Il punto è che ci si sarebbe aspettati, dopo le prime rimostranze, la convergenza verso un candidato pulito, presentabile e culturalmente preparato, con una storia fatta di lotta e di denuncia contro mafia e malaffare.

Ci si sarebbe aspettati quantomeno un dibattito interno positivo e poi una sintesi, non certo la stolta e deprimente cagnara sulla presunta strumentalizzazione della figura di Peppino Impastato, per l’utilizzo di una frase, “I Cento Passi”, che peraltro è di Fava ed è nata dalla sua opera di sceneggiatore dell’omonimo film che ha permesso al mondo di conoscere la storia di Peppino. Le gelosie, le liti passate, i rancori, tutto questo invece ha prevalso a lungo e ha spostato l’attenzione, consumato energie, distogliendo lo sguardo dall’unico obiettivo utile: evitare di lasciare campo libero alle forze non di sinistra che si contendono la guida della Regione.  Forse, in campagna elettorale certe scorie sono scomparse e si è posto rimedio. Ma questo lo sapremo solo il giorno dopo il voto, quando leggeremo numeri e percentuali.

Di certo, rimane questo vizio alla separazione che sta condannando una delle aree politiche più preziose, specialmente in un mondo, come quello attuale, profondamente dilaniato dalle disuguaglianze. Rimane evidente, in particolar modo, l’assenza di leader e dirigenti politici capaci di stimolare un dibattito costruttivo, dare un indirizzo, tracciare una linea che di quel dibattito costituisca la sintesi migliore. Mancano in generale figure di primo piano in grado di guardare avanti, oltre la competizione elettorale, oltre la ricerca di alleanze. Uomini e donne capaci di parlare alle “basi” e guidarle, piuttosto che rivolgere a loro (vero Fassina?) un sos imbarazzante che ha il colore opaco di una penosa confessione di debolezza.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org