Esiste una smisurata differenza tra chi subisce uno stupro e chi decide di commentare quello stupro. Esisterebbero anche dei limiti morali e dialettici, che invece vengono continuamente travalicati da gente che finisce per sedersi nella stessa poltrona concettuale degli stupratori, per di più infuriandosi quando glielo fai notare. La violenza che in queste settimane abbiamo visto scorrere sulle pagine dei giornali, sul web, nei social è un misto fra sessismo, razzismo bieco, misoginia, ipocrisia e “pornografia giornalistica”, come qualcuno l’ha giustamente definita. Un pentolone di minestra rancida dentro cui ciascuno buttava gli ingredienti più adatti a sostenere la propria inutile verità.

Dell’uso colpevolmente asimmetrico dell’informazione, con riferimento specifico ai casi di Rimini e Firenze, si è detto e scritto tanto e personalmente ho ancora sullo stomaco la torbida elucubrazione di chi prima ha scritto di rifiutare la logica della etnicizzazione dello stupro e subito dopo, però, ha affermato che lo stupro da parte di un immigrato, di un “ospite”, sia un tantino più grave. Sono purtroppo in tanti a pensarla così, perché questa linea concettuale accompagna i commenti e le opinioni di coloro i quali non partecipano all’idea spudoratamente razzista che certi reati siano “tipici” degli stranieri, ma poi pongono comunque un confine, assegnano una gradazione differente.  Essere ospite (sulla correttezza di questo concetto in questa sede soprassediamo) costituirebbe dunque un’aggravante.

Diverso è stato invece l’atteggiamento sul caso dei carabinieri accusati di violenza sessuale su due ragazze giovanissime. Qui nessuna aggravante, mille scusanti, dubbi artificiosi, notizie false diffuse per screditare le vittime, maldestri tentativi di giustificare i colpevoli o di nascondere lo stupro dietro i bonari rimproveri per aver fatto salire due civili in auto, come se la cosa più grave fosse questa. I commenti in questo caso sono stati più comprensivi, al massimo ci si è arrabbiati per la cattiva figura che “due mele marce” hanno fatto fare alla gloriosa Arma. Anche il generale Del Sette ha tuonato per difendere l’onorabilità dell’Arma, macchiata dalla condotta di questi due sconsiderati figli.

Insomma, in entrambi i casi rimane sempre quella enorme differenza tra chi lo stupro lo subisce e chi lo commenta. In poche parole, chi commenta si concentra su tutto tranne che sulla vittima e sul suo dolore. Si è parlato e straparlato di stranieri criminali, di invasione, di castrazione chimica, di donne consenzienti, di alcool che abbassa le difese (cosa che, secondo qualche genio, ammorbidirebbe le responsabilità degli stupratori), di danno procurato all’Arma dei carabinieri e così via. Nessuno che abbia pensato alle vittime, a difenderle da questo odioso e volgare chiasso.

Nessuno che abbia pensato al fatto che per chi subisce uno stupro non conta la nazionalità di chi lo compie, il fatto che indossi una divisa e che ciò crei danno d’immagine ai carabinieri. Chi è vittima di una violenza non pensa che chi è “ospite” debba avere una pena detentiva maggiore rispetto a chi è autoctono, né valuta differenze o gradazioni di responsabilità di fronte all’identico orrore della sopraffazione maschile. Chi viene stuprato subisce sul proprio corpo e sulla propria anima, in qualsiasi caso e condizione ciò avvenga, l’atto più disumano, insieme all’omicidio, che un uomo possa compiere nei confronti di una donna.

È proprio questa la ferita più grande procurata dal minestrone mediatico e social nel quale sono state mischiate due vicende terribili e dolorose: è il non aver capito che c’è un limite che va rispettato. Nel commentare e anche nel raccontare i fatti. Il giornalismo italiano, ad esempio, ha offerto il peggio assoluto, al punto che ormai davvero è difficile capire se sia così solo per far parlare di sé e vendere di più, sfruttando la grettezza umana di una parte del popolo, oppure semplicemente perché esso è in buona parte così, culturalmente e professionalmente inetto, e si fa forte dell’impunità garantita da un ordine che sembra avere l’identica inerte debolezza che ha l’Onu dentro a una guerra.

La sporcizia morale di certe penne nei confronti delle due ragazze americane è qualcosa che non se ne andrà via facilmente dalla memoria. Una sporcizia criminale, perché offre sostegno agli imbecilli del web, quelli sboccati e quelli subdoli, tutti riuniti nella logica violenta e primitiva della colpevolezza femminile, del “se l’è andata a cercare”. La stessa logica che altri potrebbero proiettare sulle loro figlie, mogli, sorelle. Ma evidentemente a loro non importa. Perché forse anche in quel caso la penserebbero così. D’altra parte questo è il Paese del femminicidio, dove una ragazza di 17 anni può essere uccisa perché considerata troppo autonoma.

Qualcuno pensa ancora che la lotta ai reati di genere si faccia semplicemente aumentando la sorveglianza, la repressione e la pena. Sicuramente la pena deve essere esemplare e certa, ma io continuo a pensare che, ferma restando la necessità urgente di cancellare qualsiasi forma di impunità e di adeguare gli strumenti normativi (compresi quelli preventivi), qui siamo davanti a una voragine culturale grave e pericolosa. Su questo campo c’è da lavorare ancora di più, con l’istruzione, la contestazione e la distruzione impietosa dei modelli culturali attuali e con relativi meccanismi sanzionatori funzionanti. È questo il compito più difficile da svolgere, soprattutto nell’epoca in cui le bugie diventano notizie e in cui la piazza degli imbecilli di ogni livello è sempre maledettamente affollata.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org