“…Quando cerco di dormire, di notte riesco a sognare solo in rosso. Il mondo là fuori è in bianco e nero ma un solo colore muore. Potete spegnere una candela, ma non potete spegnere un fuoco. Quando la fiamma comincia a bruciare sarà proprio il vento a renderla indomabile”. (Peter Gabriel).

Sono alcune strofe della canzone che Peter Gabriel scrisse, nel 1980, in onore e in memoria di Stephen Bantu Biko ucciso a Pretoria nella notte fra l’11 e il 12 Settembre 1977 dalla polizia bianca sudafricana. Ma chi era Steve Biko? Per il popolo sudafricano, schiacciato e umiliato dal verme dell’apartheid in un Paese dove la legge aveva un solo colore, il bianco, Steve Biko era il giovane leader che sapeva parlare di libertà; per la polizia bianca era il leader fuorilegge di un movimento fuori legge. Non solo: nel 1970 Steve Biko fondò il Black Consciousness Movement, ovvero il Movimento per la Coscienza Nera che si muoveva fra il movimento politico e sindacale e la componente studentesca.

Erano anni durissimi per chi in Sudafrica non aveva la pelle bianca: Nelson Mandela era la voce incatenata del Paese e Stephen Bantu Biko era un giovane studente di medicina che amava il rugby e la libertà, e aveva la pelle nerissima. Quel colore e il suo attivismo politico gli costarono l’espulsione dall’Università. Steve Biko è poco più di un ragazzo quando comincia il suo cammino di lotta e di disubbidienza al regime razzista e segregazionista: nel 1969 fonda il primo sindacato di studenti neri, il South African Students Organisation. È un passo importante nella lotta contro l’apartheid, perché si basa sull’aspetto psicologico e sulla presa di coscienza dei neri.

Per Biko la consapevolezza doveva essere la base di tutto il processo rivoluzionario. Questo distingueva Steve Biko e il suo movimento dalle altre organizzazioni che si battevano contro l’apartheid, prime fra tutte l’African National Congress. Per Biko la lotta all’apartheid era prima di tutto una questione culturale e in tutto questo la somiglianza con i movimenti non violenti che in quegli anni nascevano negli USA, sotto l’esempio di Uomini come Martin Luther King, sembra evidente.

Ma la figura di Steve Biko diventa un simbolo per la libertà dei neri sudafricani qualche anno più tardi. È il mese di giugno del 1976, in Sudafrica è ancora inverno e fa freddo. Soweto è una township della periferia di Johannesburg. In altre parole è il ghetto dei neri di Johannesburg. Un anno prima, il governo sudafricano imponeva per decreto, in tutte le scuole riservate ai neri sudafricani, l’utilizzo della lingua afrikaans come unica lingua per l’insegnamento. Per i neri era un insulto inaccettabile, la lingua dei loro oppressori imposta per legge agli studenti. Gli studenti sudafricani conoscevano bene l’origine della parola “apartheid”: significa “separazione” e l’origine di quella parola era proprio in quella lingua dei boeri che furono i primi colonizzatori, olandesi, del Sudafrica.

La risposta degli stessi studenti fu immediata e straordinaria, senza precedenti. Furono in migliaia a scendere nelle strade di Soweto, i giornali dell’epoca parlano di una folla di oltre ventimila studenti in marcia. E la reazione della polizia fu quanto di più violento e brutale si possa immaginare. Accanto alla polizia, nelle ore e nei giorni degli scontri, era schierato anche l’esercito. La violenza di quei giorni fece il giro del mondo conquistando le prime pagine di tutti i principali giornali. Una fotografia in particolare divenne il simbolo di quella rivolta conclusa nel sangue: la foto di un ragazzo, con in braccio un bambino, e una giovane donna che corre accanto a lui. Quel bambino si chiamava Hector Pieterson, e la corsa in braccio a quel ragazzo non riuscì a salvargli la vita (leggi qui).

L’inferno durò una decina di giorni. Partita dagli studenti, la protesta si allargò alle fabbriche. Molti cittadini bianchi sudafricani scelsero di appoggiare quella rivolta e agli studenti neri si unirono non pochi studenti bianchi. Poi, dopo l’inferno, a Soweto si contarono i morti e ancora oggi le cifre non rendono giustizia a quei giovani: le cifre ufficiali parlano di centinaia di vittime. I giorni di Soweto aprirono al mondo la finestra sul Sudafrica. Da quel momento nessuno poteva fingere di non sapere e non vedere quello che stava succedendo, ma in molti continuarono invece a fingere di non sapere e di non vedere.

Ci furono, è vero, reazioni e proteste da parte della comunità internazionale, furono introdotte o inasprite sanzioni economiche contro il Sudafrica. Ma tutto in maniera molto morbida. Qualcuno ha scritto che l’incendio di Soweto fu l’inizio della fine per il regime razzista del Sudafrica. È vero, ma ci vollero ancora tanti anni perché questo potesse davvero accadere.

Il Leader di quei giorni e di quella generazione di giovani e di studenti neri era Stephen Bantu Biko. Un anno dopo, il 18 agosto 1977, Biko fu fermato a un posto di blocco, arrestato e rinchiuso nel carcere di Port Elizabeth. In quella cella Steve Biko viene picchiato e torturato. Subisce lesioni cerebrali gravissime e durante il suo trasferimento all’ospedale del carcere di Pretoria, avvenuto rinchiuso nel baule di una Land Rover, muore. L’autopsia dimostrò che la morte era la conseguenza delle violenze subite, ma anche di fronte ai referti la polizia sudafricana negò sempre e nessuno di quei poliziotti fu mai processato né dal governo razzista bianco, né in seguito. Stephen Bantu Biko morì lo stesso giorno in cui, tanti anni prima, morì suo padre ucciso da un poliziotto bianco: il 12 settembre, 1977 per Steve e 1951 per il padre.

La storia di Stephen Bantu Biko merita di essere ricordata: per quello che è stata, per lo spessore umano di un ragazzo studente di medicina che amava il rugby e la libertà e aveva la pelle nerissima. Merita di essere ricordata per quello che il Sudafrica ha rappresentato nella lotta per i diritti civili, per il peso terribile che l’apartheid ha avuto nella storia dell’Umanità, non solo in Sudafrica. Merita di essere ricordata perché l’Europa, la bianca e sviluppata Europa dimentica sempre troppo in fretta le sue pagine peggiori. Dimentica in fretta le troppe ferite che lei per prima ha inferto al continente africano. Dimentica, per esempio, che in Sudafrica la politica segregazionista istituita alla fine della seconda guerra mondiale resterà in vigore fino al 1994. L’apartheid fu dichiarato crimine internazionale dalle Nazioni Unite nel 1973, ma questa risoluzione entrerà in vigore solo nel 1976.

La storia di Stephen Bantu Biko merita di essere ricordata perché ovunque i diritti civili saranno calpestati, fra l’indifferenza e la compiacenza del mondo, ci sarà sempre un giovane che amerà il rugby e la libertà. Merita di essere ricordata perché Stephen Bantu Biko era un ragazzo costretto dalla vita a diventare uomo troppo presto, amava il rugby quindi non aveva paura della “mischia”. Lui che stato messo al bando dopo essere stato espulso dall’Università, e per questo senza nessuna possibilità di poter parlare pubblicamente, era comunque entrato nel cuore dei giovani che lo vedevano come un riferimento chiaro.

Gli stessi giovani che in quel giugno del 1976, a Soweto, decisero che non potevano mai più chinare la testa. Stephen Bantu Biko sapeva che la libertà si paga e si raggiunge sempre metro dopo metro, un metro alla volta. Solo così si arriva alla meta, e quella meta a volte si paga con la vita.

“La miglior arma degli oppressori è la mente degli oppressi”. (Stephen Bantu Biko)

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org