La prima sezione penale della Cassazione rievoca momenti difficili. Per questo, quando agisce o viene tirata in ballo, non è mai semplice sottrarsi alla memoria di una fase complessa, travagliata, drammatica. Quella vissuta tra gli anni ‘80 e ‘90, quando a presiedere la sezione (dal 1985 al 1993) fu il giudice Corrado Carnevale, soprannominato l’ammazzasentenze, per la sua consuetudine ad annullare centinaia di sentenze di condanna nei confronti di mafiosi, una fama arricchita dalla sua visione parziale della mafia (a cui negava una struttura organizzata) e dagli attacchi frequenti al pool antimafia di Falcone e Borsellino. Oggi, Corrado Carnevale per fortuna è in pensione, ma la sezione che per otto anni ha diretto si trova di nuovo in mezzo alle polemiche.

L’annullamento con rinvio della decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna, che aveva respinto la richiesta dei legali del boss di cosa nostra Totò Riina di sospendere o differire la pena, passando dal regime carcerario a quello domiciliare o ospedaliero, ha creato molto clamore. Qualcuno indubbiamente ha straparlato, sul web soprattutto, determinando la circolazione di notizie false, come quella secondo cui Riina sarebbe stato scarcerato entro poche ore. In realtà, per essere precisi, la Cassazione ha invitato i giudici di sorveglianza a riscrivere l’ordinanza in maniera più congrua e meno contraddittoria e lacunosa (lo era secondo i giudici della Corte) e, nel contempo, a valutare se sussistono i presupposti per un tipo di detenzione differente da quella in cella in regime di 41 bis, nel caso in cui ciò dovesse arrecare sofferenza o lesione della dignità nei confronti di quello che è un detenuto dello Stato.

Al netto delle distorsioni dell’informazione, rimane il fatto che questa scelta è l’ennesima nota stonata in un Paese nel quale la giustizia sembra una macchina impazzita, che peraltro non esita a mettere in atto una diversità di trattamento persino tra i mafiosi detenuti. Bernardo Provenzano è morto in carcere, malato e in uno stato praticamente vegetativo. Totò Riina, che non è trattato in modo inumano e gode legittimamente di tutte le cure necessarie, compresi i ricoveri in ospedale, riceve invece l’attenzione della Cassazione, che si preoccupa della sua dignità.

In linea di principio, questo si potrebbe anche accettare e spiegare con la volontà di non replicare proprio quanto accaduto a Provenzano, per cui il rifiuto di scarcerazione, nonostante l’evidente stato di cattiva salute del boss, provocò polemiche nei confronti della magistratura. Ma poiché siamo in Italia, in un Paese nel quale le finte perizie e i certificati medici taroccati per garantire i domiciliari a pericolosi criminali non sono certo una rarità, la linea di principio lascia spazio alla cautela doverosa e alla necessità di non farsi gabbare da un criminale efferato che mantiene ancora il suo potere dentro cosa nostra.

Soprattutto, la violenza stragista di Riina, i rapporti perversi con la politica e il ruolo di protagonista, in qualità di controparte, nella trattativa con alcuni apparati dello Stato, lasciano vivo il sospetto che questo tentativo di permettergli di morire a casa propria possa essere proprio parte di quell’accordo, che ancora non ha esaurito i suoi effetti e che magari continua a essere discusso in qualche scantinato buio della democrazia. Riina non è Provenzano, è molto di più. Non è un detenuto qualsiasi, rispetto a cui il principio del rispetto della dignità e dello stato di salute dovrebbe prevalere senza troppi interrogativi. Riina, fino a poco tempo fa, ha raccontato il sadismo con cui ha ucciso le sue vittime, gli uomini migliori dello Stato, donne, bambini, persone innocenti. Fino a poco tempo fa, lanciava messaggi e minacce contro uomini dello Stato, magistrati, giornalisti.

Non è solo un povero malato, ma anche e soprattutto una belva spietata. Lo Stato, naturalmente, deve fare lo Stato e non può agire secondo rabbia e dolore, ed è quindi chiamato a garantire dignità a tutti i detenuti, senza distinzione. Ma al contempo, lo Stato dovrebbe garantire la certezza della pena, rispettando la memoria di donne e uomini spazzati via dalla furia sanguinaria di un miserabile assassino. Lasciare che Riina muoia a casa propria, che lo si faccia in buonafede o meno, sarebbe inoltre un inchino alla mafia e al suo simbolismo funesto. Per un boss, morire nel proprio letto e non dentro un carcere significa aver vinto. Significa dare un messaggio a tutti, mafiosi e non, di onnipotenza. Significa smentire l’idea che chi diventa mafioso finisca male: o in carcere o morto ammazzato.

Un messaggio pericoloso, diseducativo, perché darebbe l’immagine di uno Stato che, alla fine, si arrende. Qui non si tratta di derogare a un principio costituzionale di tutela della dignità di ogni essere umano, chiunque esso sia, né di una disputa tra vari livelli di dignità. Qui siamo di fronte a una questione “politica”, nel senso vero del termine. Questo Paese, se vuole, è perfettamente in grado di garantire un trattamento dignitoso a un detenuto come Riina e se non lo è si attrezzi per esserlo, colmando le eventuali lacune. Se non ne sarà capace, pazienza. Non sarebbe una novità, visto che siamo la nazione nella quale un normale cittadino, con la fedina penale pulita, che voglia morire con dignità, è costretto a pagare migliaia di euro per andare all’estero, accompagnato da amici che poi vengono persino denunciati e posti sotto processo.

Ecco, in una nazione normale, la Cassazione dovrebbe occuparsi principalmente di questi ultimi, annullando le accuse e facendo da input a un cambiamento normativo. Ma per Riina, in ogni caso, non cambierebbe nulla. Perché non esistono ragioni di alcun tipo per ammettere un differimento della pena che è chiamato a scontare, né tanto meno esistono ragioni per mettere sotto accusa una norma fondamentale come il 41bis. Chi lo fa si mette sullo stesso piano di Bagarella, Riina e della parte peggiore della storia di questo Paese.

Chi lo fa, dismetta la propria ipocrisia e si dichiari allora apertamente contro Falcone, Borsellino e tutti coloro i quali sono stati uccisi in quel tempo in cui, dal carcere, si ordinavano massacri e in cui, nel carcere, si stappavano bottiglie di champagne per brindare alle stragi. Riina in quel carcere ci deve rimanere, perché in caso contrario non dimostreremmo di essere un Paese civile, come qualcuno dice, ma soltanto di essere un Paese che ha scelto di perdere la propria dignità al cospetto di un suo nemico feroce.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org

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