C’era una volta il giornalismo, mestiere antico e bellissimo. Non so se definire il “giornalismo” un mestiere, un lavoro o piuttosto un bisogno intimo di raccontare il mondo e la sua gente, toccare con mano le contraddizioni e le storie umane e portarle nelle case di tutti. Il bisogno di portare a conoscenza la storia di tutti i giorni per provare a cambiare almeno una parte di questo mondo, contribuire a renderlo migliore, tentare di costruire un ponte fra culture diverse. Questo modo di intendere il giornalismo risponde anche a un bisogno personale di essere parte viva e attenta del proprio tempo.

Un vecchio reporter di guerra diceva che “… c’è un solo modo per raccontarle, per fare capire a chi legge e a chi guarda cosa veramente significhi una guerra: è essere lì”. Sono tanti i giornalisti, i reporter, che sanno “essere lì”, per capire, per conoscere, per raccogliere una testimonianza e raccontarla. Non sono quasi mai graditi a chi decide come e quando fare una guerra, soprattutto se non si fermano di fronte alle prime apparenze, alle prime notizie. Qualche volta scavano in profondità, qualche volta trovano quello che non avrebbero dovuto trovare. A volte sono “Firme” già affermate, a volte sono inviati. Ma sono una presenza vera, reale, capaci di restituire la decenza al sistema dell’informazione. A volte incontrano qualcosa che è più forte di loro, una pallottola, una bomba o un segreto che deve rimanere tale. È per questo che non potranno essere lì un’altra volta.

Penso ai tanti che hanno saputo vivere il giornalismo in questo modo e penso ai troppi che, in questo tempo che è il mio, umiliano e offendono il significato dell’essere “giornalista”. Penso alla grande informazione, alla potenza sempre più forte dell’informazione televisiva pubblica e privata, e penso ai giornali da sempre vicini al mondo che conta. Penso a chi da uno studio televisivo non fa il giornalista ma lo showman, penso a chi vive il giornalismo d’inchiesta solo come a un tavolo apparecchiato di plastici e di sensazionalismo, penso a chi fomenta gli animi senza andare al cuore delle questioni. Penso a chi dirige grandi giornali e lo fa dimenticando l’essenza del raccontare per capire e aiutare a capire.

Oggi conta l’audience e conta soprattutto non disturbare il conducente. E allora non si racconta come nasce davvero l’ondata dei profughi che cerca in Europa quello che anche l’Europa ha distrutto a casa loro, non si racconta come e perché nascono guerre in ogni angolo del mondo, non si racconta chi le fomenta e chi ci guadagna. Non si racconta come mai nell’Europa che ha conosciuto la notte del fascismo e del nazismo assumono sempre più forza i movimenti politici che fanno ancora riferimento a quella notte. Non si raccontano i legami stretti che uniscono in un abbraccio mortale i grandi gruppi industriali con i grandi gruppi finanziari e con i grandi trafficanti di armi e di umanità. Non si raccontano i nomi e le storie di chi costruisce le proprie fortune su queste guerre.

No, si scelgono altri modi di fare informazione: dati, numeri e statistiche che non spiegano niente ma alimentano solo paure, psicosi e un clima di diffidenza se non di odio. È anche così che si costruiscono i nuovi muri.

Chi non accetta questo gioco è messo ai margini. Sì, forse è sempre stato così, ma oggi tutto questo è amplificato. Sono cambiati gli spazi a disposizione e questa è anche la contraddizione più forte di questi tempi: da una parte sono aumentate le possibilità di comunicare e di fare informazione e dall’altra sono diventate quasi una nicchia a cui è difficile accedere. Internet, i social network … tutto sembra aiutare la diffusione di informazione e notizie ma accedervi presuppone la costante connessione a questa modalità.

Ma esiste un mondo che non è sempre connesso, è a questo mondo che si fatica a d arrivare mentre invece a questo mondo ci arrivano le televisioni, ci arrivano i Bruno Vespa e i troppi come lui che lavorano per fare in modo che non cambi nulla. E tante volte sembra davvero che sia così, il Paese del Gattopardo sembra sempre vincente. Giuseppe Fava diceva “… a che serve essere vivi, se non si ha il coraggio di lottare? “. Ecco, il coraggio di lottare significa anche volere andare sempre conto corrente, con il vento in faccia. Significa sapere di essere, il più delle volte, a fianco della propria solitudine. Sapere che le parole dette e scritte tante volte sono parole al vento.

C’era una volta il mondo diviso in due blocchi, c’era una volta il muro di Berlino, c’era una volta… Per molti, l’avvento della “guerra contro il terrorismo” ha portato a credere che l’11 settembre 2001 segnasse un cambiamento radicale del mondo. In realtà, da quel giorno la manipolazione politica è ancora più presente in questa “guerra contro il terrore” come in tutte le guerre che abbiamo conosciuto da sempre. E allora? Allora anche le parole al vento possono avere la loro importanza, perché il vento le porta in giro. Raggiungeranno una persona, e poi un’altra e un’altra ancora. Piano piano, un po’ alla volta. Il vento è sempre capace di spazzare le nuvole, e poi il vento in faccia è sempre un bacio amico.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org