Aprile, un mese diverso dagli altri undici. Racconta qualcosa che è stato e che non si dimentica, è una raccolta di fotografie e di storie che si tramandano e che non si perdono nel vento. È una favola dura, di fatica e dignità, di coraggio e di umana voglia di vivere, di ribellione. E le favole hanno sempre un profumo particolare, lo annusi e lo ritrovi sempre: nelle piazze, nelle strade, nei ricordi di chi lo ha vissuto in prima persona e che regala un brivido e un’emozione a chi lo ha solo sentito raccontare. È un arcobaleno che scalda sempre e restituisce tutti i colori della libertà. Perché la libertà cerca sempre la sua strada, anche quando è dura, buia e nasconde l’orizzonte a ogni angolo, a ogni curva.

La libertà ha sempre mille facce, a volte è un sorriso che corre su una bicicletta nelle vie di una periferia di Milano e ha il volto di una donna ricca di coraggio e di voglia di correre. C’era una volta una donna che correva su quella bicicletta nelle strade del quartiere di Niguarda, correva sempre. Bisognava portare messaggi, c’erano compagni di strada che avevano bisogno di lei all’Ospedale di Niguarda e in altri angoli della città, c’era una rete di Partigiani che restava unita e lottava e lei c’era, era con loro. E poi … poi c’era quella vita che portava dentro di lei e che sarebbe nata a breve. E lei sapeva che quella vita non poteva nascere in una città che non fosse libera, non poteva sbocciare e sorridere circondata dal fetore fascista e sotto il giogo delle camice naziste.

Lei che era nata lontano da Milano, in provincia di Mantova il 4 aprile del 1913, e che oggi avrebbe più di cent’anni. Lei, entrata giovanissima nella pagina straordinaria dell’antifascismo, lei che aveva conosciuto le torture dei fascisti nel carcere di Parma. Lei, arrestata nel 1943 e denunciata al Tribunale Speciale per avere organizzato insieme con altri gli scioperi di marzo, seppe resistere a quelle torture e non denunciò nessuno dei suoi compagni.

Quella donna si chiamava Gina Galeotti Bianchi, ma per tutti era “Lia”, questo era il suo nome di battaglia, la partigiana Lia uccisa, il 24 Aprile del 1945, in una strada del quartiere di Niguarda dalle raffiche sparate da un camion carico di soldati tedeschi. La partigiana “Lia” incinta di otto mesi, stava correndo sulla sua bicicletta all’ospedale di Niguarda per incontrare alcuni partigiani feriti, lì ricoverati sotto falso nome. Racconta anche la storia di “Lia” il vento d’Aprile, una storia che si mescola e si abbraccia con quella di tanta altra umanità capace di sacrificare la propria vita per un’idea strana che si chiama “Libertà”.

Oggi, in quel quartiere, c’è tanto che ci parla di lei: c’è una piccola area di verde e di alberi, il giardino Gina Galeotti Bianchi. E c’è un Teatro piccolo ma gentile, ricco di cultura e di storia, che accoglie chiunque attraversi il suo androne con una targa e una fotografia della “Partigiana Lia”, sorridente e fiera, dolcissima e bella. Spesso ho definito questo Teatro, il Teatro della Cooperativa, come un “Teatro Partigiano” e resto di questa idea. Perché la parola “Partigiano” per me indica un’appartenenza, una scelta, un valore. Teatro significa cultura, significa l’opportunità di guardare alle cose e ai fatti con un’attenzione particolare.

Significa costruire un’idea, raccontarla, renderla viva. E questo accade in quel Teatro. E questo accade ogni volta che assisto a “Nome di battaglia Lia”, la storia della partigiana Lia raccontata quasi tutta in dialetto milanese e che ti porta a pensare che … sì, la “Lia” l’abbiamo davvero conosciuta tutti, è lì che corre ancora sulla sua bicicletta, libera e tenace, coraggiosa, testarda e orgogliosa come solo le donne sanno essere. Nessuna raffica di mitra l’ha uccisa per davvero. E poi c’è un “murale” all’ingresso del quartiere, un murale enorme che ricorda a tutti la “Niguarda Antifascista”. Un murale dove “Lia” corre ancora sulla sua bicicletta, accanto a Stellina Vecchio “Lalla”, un’altra delle donne che hanno fatto davvero la storia di questo Paese.

Stellina Vecchio “Lalla” in quei tempi ha l’incarico di tenere i collegamenti, come staffetta partigiana del Comitato lombardo delle Brigate Garibaldi, con la Valsesia, dove combattono gli Uomini di Cino Moscatelli. “La Valsesia per noi – racconta Stellina nel libro La bicicletta nella Resistenza – era un luogo mitico, un posto dove erano forti e organizzati i gruppi partigiani, in gran parte garibaldini. Così cominciarono anche i miei eterni viaggi in bicicletta”. (clicca qui

Un murale dove un disegno fatto con il cuore prima ancora che con la vernice ci parla di un gruppo di Uomini e Donne che ha lottato e pagato un prezzo altissimo per la nostra libertà, accompagnati dalle parole straordinarie di Piero Calamandrei. Quel murale, disegnato in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione, è un simbolo per tutto il quartiere e per questo è stato violato e deturpato più di una volta dalla mano dei fascisti di oggi, la mano sporca di chi nega la storia perché la mano fascista è sempre sporca. Ma ogni volta è stato ripulito, rimesso a nuovo. E così sarà sempre, ogni volta che sarà infangato dalle mani fasciste ci saranno altre mani che nello spazio di una mattinata lo ripuliranno. E altre mani gentili prepareranno un caffè caldo per chi ripulisce un disegno che è molto più di un disegno.

Ecco, anche questo è il profumo d’Aprile che sento. Perché a volte la libertà ha il volto di una donna che corre in bicicletta e corre forte, e niente la fermerà mai. La libertà è un’idea, e un’idea non si ferma né con una raffica di mitra né imbrattando un murale. La libertà è un’onda e, come direbbe l’amico Gianluca Foglia “Fogliazza”, … hai mai fermato un’onda? No, non si può.

Buon venticinque Aprile, a tutti.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org