Ci sono vite che sono come le foglie, nate sopra alberi sbagliati, cresciute sui rami di una “malapianta” dalle radici ben conficcate dentro terreni aridi. Foglie bellissime, forti, vive, per le quali basterebbero un po’ di acqua pulita, un po’ di vento fresco e il loro ramo ripiantato altrove per far crescere un nuovo albero su campi meno aridi, lontano da quelle radici. Foglie che invece muoiono di solitudine, si staccano e cadono giù. Rita Atria era una di queste. Aveva avuto il coraggio di scegliere una vita diversa da quella della famiglia che la circondava. Si era affidata allo Stato, a un giudice che era diventato il suo punto di riferimento, la sua speranza.

Quel giudice era Paolo Borsellino, che alla giovane Rita mostrava il suo sorriso rassicurante e paterno. Fino a quel maledetto 19 luglio 1992, quando in via D’Amelio la mafia e pezzi deviati dello Stato spazzarono via quel magistrato e quella speranza. Rita non riuscì a sopportarlo quel dolore. Si tolse la vita una settimana dopo, a diciassette anni, lanciandosi dal balcone della casa di Roma nella quale viveva sotto protezione. Vittima di mafia. Due volte.

Qualche giorno fa, un’ altra ragazza è volata giù dal balcone di casa. Questa volta a Reggio Calabria. Lei, Maria Rita Lo Giudice, aveva ventiquattro anni, un percorso scolastico e accademico eccellente, una vita davanti, ma un cognome pesantissimo alle spalle. I Lo Giudice sono una famiglia di mafia. Molti parenti, tra cui il padre Giovanni, sono in carcere in quanto esponenti dell’ omonima ‘ndrina. Il fratello di suo padre, lo zio Antonino, detto Nino il Nano, è l’ex boss del clan: arrestato nel 2010, pentitosi e poi fuggito nel 2013 dalla località protetta, dopo una breve latitanza fu nuovamente acciuffato e oggi è un collaboratore di giustizia.

Lo spessore criminale di questa cosca è notevole. A Reggio Calabria quel cognome è sinonimo di potere, capacità di controllo del territorio e infiltrazione, ma soprattutto di morte, sangue, violenza, racket. Quella dei Lo Giudice è anche una storia che alle donne della famiglia ha riservato destini terribili. Come quello di Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, figlio di Giuseppe, il capobastone della ‘ndrina, ucciso nel 1990. Angela scomparve nel nulla nel 1994. Uccisa, si scoprirà anni dopo, dal cognato Vincenzo e da altri suoi due parenti. Strangolata e fatta sparire, per aver avuto una relazione extraconiugale mentre il marito era in carcere.

Angela era una ragazza di 25 anni, già madre di quattro figli, probabilmente stanca di quella vita di ‘ndrangheta nella quale era rimasta impigliata. Il suo tentativo di libertà venne barbaramente stroncato. Nel corso delle indagini che, anni dopo, portarono all’accertamento della verità, si scoprì anche che la ragazza era incinta. Angela non è la sola ad essere sparita. Anche Barbara Corvi, cognata di Angela perché sposata con Roberto, un altro dei fratelli Lo Giudice, è scomparsa nel nulla, nel 2009, da Amelia (Terni), località nella quale risiedeva con marito e figli. Pare che qualcuno avesse riferito al marito che la donna avesse una relazione extraconiugale.

La storia dei Lo Giudice, dunque, è una storia infame, squallida, tipica dell’atmosfera tetra, funesta delle cosche di ‘ndrangheta, con i loro codici primitivi, la loro ignoranza, le loro regole e logiche bestiali. Maria Rita ha avuto la sfortuna di nascere lì, da quel padre e in quella famiglia. Era una foglia bellissima e intelligente cresciuta sopra una “malapianta” infetta. Soffriva Maria Rita, soffriva il rumore di quel nome da cui non riusciva ad affrancarsi. Cercava una vita normale, si era laureata con ottimo profitto, guardava lontano dalla Calabria, da Reggio, da quella famiglia che comunque non aveva abbandonato o disconosciuto. Non ancora.  Probabilmente perché non è riuscita a trovare un appiglio diverso dallo studio, strumento di liberazione importante ma non sufficiente, da solo, a tirarti fuori da quell’inferno di abitudini e regole.

Suicidio. Così Maria Rita avrebbe scelto di liberarsi. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché sarà l’autopsia completa, chiesta dalla madre e dal fratello, a dare qualche informazione in più. D’altra parte, visti i precedenti del clan Lo Giudice, meglio non tralasciare alcuna ipotesi. In ogni caso, qualsiasi sia la causa della sua morte, questa è una sconfitta di tutti, della società e delle istituzioni. Questa ragazza poteva essere salvata. E ne possiamo ancora salvare tanti, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, che vivono in queste condizioni dentro l’oscura e putrida gabbia delle ‘ndrine.

Questa ennesima storia è la riprova di come la criminalità organizzata porti solo infelicità, tragedia, dolore, morte, anche al suo interno. Dobbiamo spiegarlo ai figli, ai più piccoli. Non solo in Calabria, ma ovunque. Scegliere l’onestà e non il crimine, perché essere onesti magari porterà meno soldi e meno potere, ma alla fine regala una vita più felice nella quale i giorni di sole, la bellezza delle piccole cose, le soddisfazioni, l’amore, i figli, le cose belle da godere saranno di gran lunga più numerosi e importanti del dolore e delle cose negative. Un piccolo albero verde avrà sempre più ossigeno e più foglie di una robusta “malapianta” divorata dai parassiti, dal piombo e dalle infezioni.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org