È l’estate del 2015 e Paola Clemente è al lavoro nelle campagne di Andria. L’estate pugliese è calda e il lavoro delle braccianti è duro, pesante. I giornali raccontano che Paola quel giorno era impegnata nell’acinellatura dell’uva. Non so di preciso di che cosa si tratti, ma non ha nessuna importanza. La cosa importante è che Paola non è più tornata a casa sua, quell’estate calda se l’è portata via. Dopo più di due anni da quella storia di sfruttamento e di morte, la Guardia di finanza e la Polizia hanno arrestato le persone che ruotano intorno alla sua morte e l’accusa è pesante: illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro, truffa ai danni dello Stato.

Nulla di nuovo in un Paese dove lo sfruttamento del lavoro ha una storia antica alle spalle, una storia che racconta come il vigliacco ma redditizio mestiere del “caporalato” sia ancora vivo, padrone di un territorio e delle vite di chi è costretto ad accettare la violenza e l’umiliazione di un lavoro offerto come elemosina, senza nessun rispetto della dignità delle persone. La storia del “caporalato” in Italia è una storia da sempre costruita sulla complicità fra l’imprenditore agricolo e il mediatore che ingaggia i braccianti e che decide quante ore o giornate debbano lavorare e quanto debbano essere pagati. È una storia basata sulla criminalità, è una storia di lotta di classe e di mafia. Perché lo sfruttamento del lavoro e le mafie di questo Paese viaggiano sempre a braccetto, mano nella mano.

Ma questo abbraccio mortale è favorito anche dalla colpevole complicità di questo Paese, che ha sempre finto di non vedere il ragno che ha cresciuto e allevato. Perché nessuno può dire di non sapere e di non conoscere. La schiavitù dei braccianti non è solo Puglia e non è solo la raccolta dei pomodori in Campania o in Sicilia. Questa schiavitù riguarda anche i braccianti arruolati, e sottopagati, nelle campagne del Chianti in Toscana o nelle vendemmie del Monferrato. Riguarda donne e uomini di questo Paese e, soprattutto, un numero enorme d’immigrati. Nessun diritto, nessuna garanzia, nessuna tutela umana per chi è costretto ad accettare questa condizione perché questa, per loro, è l’unica condizione possibile.

Ma non sono solo le mafie, come tutti le conosciamo, a gestire il mondo sporco del caporalato. Ci sono anche altre realtà che hanno le mani imbrattate di questo fango e di questo sangue: le tante agenzie interinali, per esempio, che offrono la loro merce sottopagata e in nero. I dati parlano chiaro in questo senso e non riguardano solo i braccianti, ma anche tanti lavoratori dell’industria e dell’edilizia. Qual è allora il confine, la linea di demarcazione fra il caporalato criminale e quel sottobosco che dovrebbe garantire la trasparenza e la corretta applicazione delle leggi in materia di lavoro? Il mercato degli schiavi diventa, in un secondo momento, il mercato degli schiavi invisibili, fatto dai tanti immigrati di cui non esistono dati anagrafici riconosciuti  e che vivono nelle “banlieue” degli sfruttati.

E lo sfruttamento cammina al fianco con la tratta degli esseri umani. Un nome su tutti: Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, terra di agrumeti e di ‘ndrangheta. A volte queste “banlieue” esplodono di rabbia e violenza, come a Rosarno nel 2010. E quando le “banlieue” esplodono lo fanno con tutto il loro carico di rancore e di sofferenza, lo “scontro fra poveri” diventa fortissimo, Ma, tutto questo, viene dimenticato dopo qualche giorno e qualche servizio televisivo, perché conviene a tutti: dall’ultimo rapporto “Agromafie e caporalato”  dell’osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil si apprendono numeri impressionanti: la stima dell’economia illegale e del suo volume d’affari si attesta sui 15 miliardi di euro.

Per tutto questo è morta Paola Clemente. Aveva quarantanove anni e una vita accanto a sé che chiedeva di essere vissuta e amata. Paola non ha potuto vivere questo diritto, si è fermata prima. L’hanno fermata prima. L’hanno fermata l’ignoranza e la violenza di questa società vigliacca a malata, l’hanno fermata i “caporali” e le mafie, l’hanno fermata l’indifferenza e la complicità di una parte consistente di questo Stato che finge di non conoscere ma che poi regala un bel funerale di Stato, magari con la diretta in televisione. 

La storia di Paola non è la prima e non sarà l’ultima, perché una donna morta di fatica mentre lavora in un campo sotto il caldo feroce di un’estate pugliese non fa notizia, o non la fa abbastanza. Per molta gente la “Lotta di Classe” non esiste più o non ha più ragione di esistere. Ma non è così e per capirlo basta solo guardarsi intorno. A volte può bastare fermarsi un attimo e pensare a quello che c’è dietro un pomodoro, un’arancia o un grappolo d’uva, raccolti in un caldo pomeriggio d’estate nelle nostre campagne.

Maurizio Anelli (Sonda.Life)  -ilmegafono.org