Lo Stato islamico (Is), il gruppo jihadista che dal 2014 si è imposto sulla scena internazionale come un “laboratorio del terrore” e ha preso il controllo di ampie porzioni di territorio in Siria e in Iraq, sembra ormai vicino alla sconfitta sul piano militare. Approfittando del vuoto di potere e dell’appoggio di alcune parti della popolazione, negli ultimi tre anni i combattenti dell’Is hanno fatto di Raqqa, nel nord della Siria, e Mosul, nel nord dell’Iraq, le capitali del loro sedicente califfato islamico. Ora, però, sia a Raqqa che a Mosul sono in corso vaste offensive di forze locali e straniere, che godono della copertura aerea della Coalizione internazionale contro il terrorismo a guida statunitense.

A Mosul, nella provincia settentrionale irachena di Ninive, le forze armate di Baghdad hanno ormai preso il controllo di tutta la parte orientale della città, divisa dal fiume Tigri. Sulla sponda occidentale del fiume resiste ancora il califfato, ma le sue ore, a detta delle autorità irachene, sono ormai contate. L’offensiva su Mosul è iniziata il 17 ottobre scorso e vi partecipano forze diverse, con un unico obiettivo, quello di cacciare l’Is dal loro territorio. A Raqqa, in Siria, invece l’offensiva finale non è ancora iniziata, ma anche lì, nelle aree intorno alla città, l’Is sta perdendo progressivamente terreno e presto sarà lanciata la campagna “finale” per liberare la roccaforte islamista. La forza militare del califfato, il cui famigerato leader Abu Bakr al Baghdadi sembra aver fatto perdere le proprie tracce, sta sfumando, lasciando il posto a un nuovo vuoto di potere che qualcuno dovrà occupare.

Non sarà facile ricomporre i pezzi dell’Iraq e ricostruire la Siria, dove molte forze contrapposte sono ancora presenti al di là dello Stato islamico. Ma cosa accadrà in Europa, dove l’ideologia jihadista dello Stato islamico ha fatto proseliti, spingendo migliaia di persone ad arruolarsi nelle sue file e combattere in prima linea? Il problema dei “foreign fighters” di ritorno dai teatri di guerra ha già creato delle aberrazioni. In Germania, Belgio e Francia, da dove provengono molti dei combattenti stranieri europei, ci sono stati atti di violenza, sia organizzati che individuali, legati strettamente all’ideologia jihadista dello Stato islamico, che considera gli attentati terroristici uno strumento di guerra. È però una guerra “asimmetrica” contro la quale le misure di sicurezza non possono fare molto e, con la sconfitta dell’Is sul piano militare, il numero degli atti di violenza, secondo gli esperti, è destinato ad aumentare.

Secondo la commissione italiana di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, il fenomeno nel nostro paese è ancora limitato. Se infatti in Francia i foreign fighters censiti sono 1.500 e in Germania mille, in Italia sono poco più di 100, e solo una ventina con passaporto italiano. In generale, comunque, la maggioranza dei combattenti stranieri proviene dalla Russia. Il coordinatore della commissione, Lorenzo Vidino, ha spiegato recentemente che l’Italia, sotto questo aspetto, è 5-10 anni indietro rispetto ad altri paesi europei. Le tendenze attuali in Italia erano presenti in altri paesi 5-10 anni fa. Anche nel nostro paese ora però si tende a notare un lieve aumento. È quindi necessario focalizzarsi sul tema della prevenzione, così come dovrebbe avvenire in altri stati europei.

“Un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente. Per un insieme di motivi un approccio basato su strumenti tradizionali repressivi non può funzionare da solo – ha spiegato Vidino presentando i lavori della commissione -. Da parte delle forze dell’ordine e della comunità d’intelligence è stata avvertita un’esigenza di usare strumenti di prevenzione diversi dall’espulsione”. Vidino ha parlato di “misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale”, o nel caso dei “foreign fighters di ritorno” di strumenti per la “deradicalizzazione”. In Italia manca una strategia di prevenzione della radicalizzazione, ha sottolineato Vidino, segnalando che una delle raccomandazioni principali del lavoro della commissione è proprio creare una strategia di prevenzione, nel medio e lungo termine. In questo contesto “il partenariato con la società civile è fondamentale”.

G.L. -ilmegafono.org