Avrei voluto dedicare questo editoriale agli 11 anni di questo sito, a una appassionante avventura che continua e si rilancia con numerosi nuovi progetti che partiranno a marzo. Lo avrei intitolato esattamente come questo, ma con riferimento ai cambiamenti positivi che vivremo, ai nuovi canali che nasceranno, al potenziamento di quelli esistenti. Avrei voluto scrivere solo di ciò, ma non è stato possibile. Perché c’è la realtà quotidiana che bussa con la sua nevrotica urgenza, con quel carico di ingiustizie che diventano sempre più insopportabili, sempre più abominevoli. Stiamo vivendo nell’inferno e sembra che non ci siano vie di uscita, che non ci sia altro spazio diverso da violenza, sopraffazione, umiliazione.

La dignità, che il mio amico Moni Ovadia ha definito madre in un suo bel libro (“Madre Dignità”, 2012, Einaudi), è la vittima predestinata di questo nuovo secolo che avvia un millennio a cui, noi figli del Novecento, guardavamo con necessaria e incondizionata speranza. Speravamo che tutto fosse diverso, sognavamo un mondo nuovo, dove la guerra e le discriminazioni potessero essere un ricordo triste, magari con qualche sacca di resistenza, ma comunque destinata a soccombere sotto i colpi di una consapevolezza pacifista e solidale che ci veniva insegnata sin dalle elementari. Mandela è stato l’esempio vivente di una generazione che veniva ancora educata alla memoria, alla solidarietà, dentro un mondo nel quale erano freschi gli orrori del nazismo e dei totalitarismi mondiali.

Il mondo nuovo che si immaginava da bambini era principalmente un mondo destinato ad essere più felice ed equo, con la tecnologia capace di aprirci, in breve tempo, scenari impensabili e accessibili a tutti. Poi ci siamo arrivati, in questo nuovo secolo che, negli anni ‘70-‘80, solo a nominarlo, sembrava lontanissimo e sollecitava fantasie superbe. E ci siamo arrivati con le stragi di mafia, con il sangue di altre guerre, con la Somalia, il Ruanda, la ex Jugoslavia, il Kosovo, la prima guerra in Iraq, le discriminazioni e il razzismo sempre stabili, gli albanesi morti in mare o sopravvissuti e stipati, in migliaia, dentro lo stadio di Bari, con i viveri lanciati dall’alto e gli idranti, il caldo e la gente che andava a guardarli come fossero marziani.

Ci siamo arrivati in questo secolo e ci hanno accolto l’11 settembre e le successive guerre, con la fuga disperata di milioni di persone dalle proprie terre, con i naufragi e con l’egoismo di un’Europa ottusa. Siamo arrivati ad oggi, a Trump, all’Ue feroce che chiude le frontiere e innalza i muri, all’Italia sempre più disumana e ignorante che gioisce per la condanna a morte firmata sulla pelle di migliaia di persone in Libia. Il clima è irrespirabile. Siamo asfissiati dalla nuvola tossica di un mondo che produce sempre più orrori ma sempre meno anticorpi. Più volte pensiamo che si sia giunti al fondo del barile, che da qualche parte si ricomincerà a risalire, ma poi ci troviamo ancora più in fondo, come se non ci fosse mai una fine alla crudeltà.

Ho letto e ascoltato parole di rassegnazione un po’ ovunque, anche da parte di chi non smette di lottare, ma non ci crede più abbastanza. Come se qualsiasi gesto di umanità fosse inutile. Come se qualsiasi gesto di disallineamento fosse inefficace. Il buio circonda tutto e sembra che non vi siano piante disposte a crescere, pare che perfino i mandorli abbiano rinunciato alla loro abituale fioritura invernale. Ma è davvero così? Siamo davvero destinati a soccombere insieme alle nostre speranze in un mondo migliore?

Davvero pensiamo di insegnare ai bambini che è inutile sperare e lottare e che è molto meglio pensare a portare fieno nella nostra cascina, chiuderci nel nostro disimpegno e lasciare che il mondo vada e trovi i suoi capri espiatori da sacrificare, nella certezza che non toccherà mai a noi? Davvero crediamo che il nostro tempo libero, le nostre certezze, il nostro benessere siano non sacrificabili per alcun motivo? Forse la maggior parte delle persone risponderà di sì, ma questo non vuol dire che abbiano ragione. Perché potrebbe essere solo un modo per costruirsi l’ennesimo alibi. Ma sarebbe delittuoso lasciare che il mondo si sviluppi attorno ai nostri alibi.

Non possiamo non vedere i gesti grandiosi di quell’umanità che nessuna guerra può cancellare per sempre. Theo è solo l’ultimo esempio di una dignità che, con poche parole, rende ancora più infima e vigliacca la violenza e i suoi esecutori e complici. Un ragazzo di pelle nera che, durante un’operazione di polizia, viene fermato da quattro poliziotti, picchiato brutalmente e violentato con un manganello. Avviene tutto nuovamente in una banlieue parigina, come una decina di anni fa. La gente della banlieue reagisce, si scatena in una rabbia che è figlia dell’emarginazione, della violenza e delle umiliazioni subite da anni, soprattutto da uomini in divisa. Lui, Theo, così come aveva già fatto la sua famiglia, chiede a tutti di smettere.

Denuncia i poliziotti, i medici confermano la violenza, smentendo preventivamente chi avesse intenzione di mistificare o negare, la gente continua a protestare nelle banlieue, ma lui chiede ancora una volta la calma. Chiede di fermare quella violenza, di non aggiungerne altra. Perché Theo “ama la sua città” e non vuole vederla devastata in suo nome. Un gesto nobile, pieno di dignità. Una lezione di civiltà sbattuta in faccia ai politici, a quella Marie Le Pen che si schiera con i poliziotti, con dei criminali in divisa che, per fortuna, diversamente da come avviene in Italia, sono stati immediatamente sospesi e indagati con accuse pesantissime. Theo ha dato un segnale. Ha chiesto giustizia e al contempo pace. Ha agito con coraggio, unendo il suo bisogno di giustizia all’amore per il posto in cui vive, per il mondo in cui abita.

Un gesto incantevole come i tanti gesti di cui sono capaci tanti esseri umani straordinari. Come quelli di quei soldati dell’aviazione israeliana che si rifiutarono di bombardare Gaza e vennero arrestati per diserzione; come gli avvocati americani che gratuitamente assistono i profughi bloccati negli aeroporti istruendo i ricorsi contro il bando di Trump; come i curdi che lottano e muoiono contro l’Isis per liberare le città siriane dall’orrore; come i quattro membri della squadra di soccorso della Guardia di Finanza che passano quattro ore in mezzo alla bufera e alla neve, in piena notte, con il rischio di essere travolti da una slavina, per raggiungere con gli sci l’hotel Rigopiano e salvare più persone possibile.

E tanti, tanti altri gesti che ci fanno vedere che l’umanità non è ancora morta, che sogna ancora un mondo di pace, ne ha bisogno intimamente. E allora prova a farsi spazio anche in mezzo a questo orrore, a questo tempo senza memoria popolato ancora una volta da mostri assetati di potere e denaro.

Non so quanto sia forte, non so nemmeno se ci sia ancora spazio verso il fondo o se manchi poco per la risalita. So però che non può finire così. Non può durare a lungo tutto ciò. Qualcosa cambierà. Deve cambiare. E deve cambiare in meglio. Dobbiamo cambiare. Perché se l’essere umano e la sua dignità diventeranno definitivamente merce di scambio, corpi e muscoli da quantificare al netto della loro anima, non ci sarà più nulla. Nemmeno il mondo. Nemmeno noi.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org