Trump, Trump e ancora Trump. Ci ha messo meno di dieci giorni, il neo-presidente americano, a prendersi la scena con le sue “promesse da mantenere”. Sull’ambiente, con un primo concreto provvedimento che favorisce i petrolieri, e soprattutto sull’immigrazione, con la confermata decisione dell’innalzamento del muro con il Messico e con il blocco degli ingressi per rifugiati e migranti provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana. Eccolo Trump. Quello che ci si aspettava, anche se forse è andato perfino oltre. Ha fatto quello che la maggior parte dei leader di destra delle democrazie moderne sogna di fare. Ha rotto gli indugi, è passato sopra ai valori, alle diplomazie, ai limiti imposti dalle carte fondamentali, alla storia stessa degli Stati Uniti.

Insomma, è come se avesse urinato sopra la bandiera a stelle e strisce, come se gli avesse dato fuoco in piazza. Un atto sovversivo e violento, che il popolo non ha accettato passivamente. Gli americani, infatti, hanno reagito, insieme e senza distinzioni di razze e ceti sociali, come è nel costume della loro democrazia, tanto vituperata, tanto capace di oscenità (non ultima quella del presidente appena eletto), quanto però ricca di vitalità, contrappesi, movimenti di lotta. La cultura americana, che nella società globale si è immersa per prima, nonostante tutto, non ha ancora smarrito le sue parti più nobili.

Cittadini, associazioni, studenti, movimenti per i diritti, ma anche avvocati, intellettuali, artisti, imprenditori di primo piano, persino giudici federali hanno allora mostrato il loro No alla folle discriminazione che Trump vorrebbe rendere legale. Anche un ministro ad interim del suo stesso governo, Sally Yates, ha perso il posto per essersi opposta al decreto razzista del presidente. Negli States la protesta monta quotidianamente, perché è stato messo in discussione un valore che nella storia piuttosto giovane di questa nazione è stato conquistato drammaticamente.

Fuori dagli Stati Uniti, invece, quali sono state le reazioni? Il Canada del presidente Trudeau, caratterizzatosi negli ultimi anni come paese di accoglienza, ha ovviamente attaccato il provvedimento, ma subito ha dovuto fare i conti con un attentato di matrice xenofoba contro i musulmani, da parte di un paio di giovani, uno dei quali, a quanto pare, convinto ammiratore di Trump e della Le Pen.

E l’Europa? Anche l’Europa, a cui Trump ha fatto riferimento per spiegare la genesi del suo decreto, lo ha ufficialmente criticato. Ha preso posizione, ha ritenuto inaccettabile la portata discriminatoria del suo provvedimento. Trump, insomma, ha turbato tutti, ma le risposte europee, seppur formalmente indignate e puntuali, non sono apparse del tutto convincenti. La Commissione europea ha reagito affermando che l’Ue non discrimina sulla base di razza, religione o nazione. Ed è vero, almeno quando l’Europa decide di accogliere. Cosa che però, ultimamente, non è affatto scontata. Gli accordi con la Turchia non li ha fatti Trump. Li ha promossi e siglati la politica di questo continente incapace di gestire un flusso che sarebbe assolutamente gestibile se si cooperasse e se ci si mostrasse politicamente meno deboli con chi ha scelto di far tornare le ombre dei muri dentro i nostri confini.

Questa è l’Europa che non discrimina, ma che, in nome di egoismi di potere, povertà culturale e giochi di consenso, lascia fuori dalla porta o ammassati nei campi profughi centinaia di migliaia di esseri umani, privati di tutto. L’Europa delle discriminazioni del governo danese, della spietata indifferenza dell’Ungheria, della Slovacchia, della Macedonia, quella dei tanti, troppi rifiuti che provengono da tanti, troppi paesi. Vero è che ci sono anche nazioni che accolgono o forniscono comunque un’accoglienza decorosa, ma non basta. E non è responsabilità esclusiva di chi governa, ma è anche colpa di una disinformazione patologica e di una cittadinanza crudele oppure molle, incapace di reagire davanti a provvedimenti scandalosi tanto quanto quelli di Trump. Se non di più, perché mascherati con vesti formali e linguaggi meno rozzi, ma con conseguenze identiche.

A tal proposito, veniamo all’Italia. Gentiloni ha commentato il decreto Trump con parole scontate, ma prive di una rispondenza fattuale. Ha parlato di una società che deve essere aperta, plurale e non chiusa e discriminatoria come la vuole il numero uno americano. Parole belle, condivisibili ma, come si diceva, vuote. Perché mentre le ascolti pensi al “bloccheremo i flussi” pronunciato con tono trionfale, agli accordi con la Libia, che prevedono il blocco del passaggio dei migranti e la chiusura della frontiera con il deserto del Niger, dove quelli che arrivano di solito arrivano stremati e, se respinti, diventano dei condannati a morte certa. E questo Gentiloni e Minniti lo sanno. Così come lo sanno anche tutti quegli italiani “perbene” che oggi attaccano (giustamente) Trump ma nulla dicono (ingiustamente) su una porcheria disumana commessa dal nostro governo.

Minniti, nella sfilza di commenti al caso americano, ha assicurato l’impegno del governo a ridurre i tempi per l’espletamento delle procedure relative all’asilo, con maggiori risorse alle apposite commissioni. Peccato, egregio ministro, che il problema delle procedure non sia tanto la rapidità, quanto la giustizia. Non c’è bisogno solo di rapidità, ma anche e soprattutto di correttezza, perché le commissioni spesso trattano il richiedente asilo come un bugiardo truffatore e finiscono per mutare, quello che dovrebbe essere il racconto di una storia, in un interrogatorio puntiglioso all’eccesso, spesso ossessivo, dove non è concessa nemmeno la minima contraddizione. Il richiedente deve essere preparato, deve praticamente snaturare la propria vicenda pur di renderla credibile.

Ecco, allora, egregio ministro, che la sua/vostra linea va nella direzione più sbagliata, nella quale è lecito condannare migliaia di migranti nell’inferno libico, una direzione in cui l’accoglienza non è contemplata, non è dovuta, non è vista mai come un valore, ma solo come un disturbo da scaricare in fretta. La fortuna del suo governo è che non ha il potere di Trump e, soprattutto, vive dentro un Paese nel quale la voce la alzano in pochi e spesso a sproposito, mentre intellettuali, imprenditori, artisti, magistrati, ministri non si muovono, non parlano, non si disallineano davvero. Non ci sono più i Bauman o i Kapuściński ad illuminarci e ad avvisarci di quello che è il presente e che sarà il futuro. Ci rimangono solo gli imbecilli che vomitano bestemmie sui social o, al limite, i finti dissidenti, i rassegnati, i timidi, i parolai e i diplomatici a qualsiasi costo.

Sono responsabili anche loro di quello che accade anche qui, da questa parte dell’oceano, dove i cattivi sono pronti a mordere e dove quelli che dovevano essere i buoni provano a imitarli. E ci riescono pure meglio, ma intanto puntano il dito su Trump. Come a dire: “Per fortuna c’è sempre qualcuno che è peggio di noi”. Forse.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org