Quattro anni di condanna. Tanto vale, nel nostro ordinamento, la barbara uccisione di un innocente. Ricordate il delitto a sfondo razziale di Fermo? Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano, ucciso da Amedeo Mancini, che aveva dapprima provocato il giovane migrante con insulti razziali nei confronti suoi e della moglie e, in seguito alla sua reazione, l’aveva pestato a morte, picchiando e ferendo anche la donna. Emmanuel è morto ma la pena è stata patteggiata e ridotta per via della decadenza dell’aggravante dei futili motivi, mentre quella razzista è rimasta ma senza comportare un aumento sostanziale della pena (che poteva giungere fino a cinque anni).

In poche parole, alla fine, il facinoroso ultrà marchigiano ha ottenuto quel che sperava. Una mezza condanna, per non dire che l’ha passata liscia. Resterà ai domiciliari e perfino con un permesso di 8 ore al giorno per recarsi al lavoro. E tra pochi anni (magari pure prima, potremmo scommetterci) tornerà completamente libero, per strada, come se niente fosse. Avranno così gioito i falsi testimoni che le perizie hanno poi sconfessato evitando depistaggi, avranno gioito i leghisti e i razzisti d’Italia, avranno gioito soprattutto le redazioni di alcuni quotidiani (ne citiamo solo uno, “Il Giornale”), che hanno trascorso il loro tempo a costruire ombre sulla vita di Emmanuel, per provare a trasformare la vittima in qualcosa di diverso, magari per arrivare a rendere “meno grave” la sua morte e far riconoscere in qualche modo la “legittima difesa” a Mancini.

Un canovaccio ormai tipico quando a essere ucciso è un cittadino straniero. Ci hanno provato, queste penne sporche, a smentire quanto dichiarato dalla moglie di Emmanuel sulla dinamica dell’omicidio; ancora oggi interpretano a modo loro, con toni trionfanti, la pena ridotta, come fosse un modo per fomentare dubbi sulla credibilità della versione dei fatti, nonostante le perizie degli inquirenti. Hanno persino parlato di mafia nigeriana, di una presunta appartenenza di Emmanuel ai Black Axa, solo perché un’informativa dei carabinieri avrebbe individuato alcuni affiliati al funerale del giovane.

Un sillogismo perverso. Soprattutto una maniera immorale di svolgere questa professione. Cattiveria inaudita. Squallore irritante che sopravvive anche grazie all’immobilismo dell’ordine dei giornalisti. Emmanuel è stato ucciso due e più volte. Ha subito l’onta e continua a subirla da questo Paese piccolo piccolo. Una nazione che cammina all’indietro, non solo rispetto alla sua storia, ma anche a quella del mondo. Con una politica che è specchio dei suoi cittadini, una accolita in gran parte molle e minuscola di persone capaci di sentirsi popolo solo quando c’è da accanirsi sui disperati e sui capri espiatori.

Una nazione infima e nella quale la giustizia è spesso un miraggio o una conquista da strappare con mille lotte e ferite. A questa Italia imbarazzante, la lezione più grande l’ha data Chinyere, vedova di Emmanuel. Lei ci fa sentire tutti ancora più piccoli. Con un gesto carico di dignità, sconosciuta a certe case, a certi gruppi, a certi salotti politici, a certe redazioni di quart’ordine, a certe aule, ai tentennamenti complici di enti la cui utilità è solo simbolica e mai concreta (a differenza dei loro privilegi di casta). Chinyere è una donna sfortunata alla quale la vita ha tolto tutto. Anche il suo ultimo appiglio. Non ha urlato, non ha usato parole di odio, non ha generalizzato, non ha giudicato assassini tutti gli italiani. Non ha chiesto nient’altro che giustizia. Una giustizia misera.

Ci ha dato una lezione, Chinyere: ha rinunciato ad agire per ottenere un sostanzioso risarcimento. Non ha chiesto soldi per sé. Soldi che pure sarebbero dovuti, soldi per i quali l’italiano medio (a partire da quello leghista e razzista) venderebbe anche la propria madre. Ha chiesto solo una cosa, in cambio: il pagamento da parte del condannato delle spese (circa 5000 euro) per il trasferimento della salma di Emmanuel in patria. Una patria da cui era scappato per salvarsi, chiedendo aiuto a un Paese che ora lo rimanda indietro cadavere. Un dramma che è il marchio di questa Italia con la coscienza lercia, la stessa che ha da poco scelto di rispedire indietro migliaia di disperati, in Libia e nel deserto del Niger, condannandoli a subire violenze o a morire. Ma questa è un’altra storia. O forse no.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org