“…Si parla della guerra: la facciamo, non la facciamo, con chi stiamo, che posizione prendiamo, come la combattiamo. Parlare, discutere, litigare sulla guerra. E viverla? Come si sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema durante la guerra? Proviamo a guardare la realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare questo confine… Cominciamo ad ascoltarne le storie, che sono storie di uomini. Credo che conoscerle sarebbe sufficiente, a quasi tutti noi, per cambiare idea sulla guerra. Storie vere, non manipolate… Proviamoci. Dopo, forse, potremo parlare della guerra a buon diritto e, quasi certamente, in modo diverso…”. (Gino Strada, dal libro “Buskashì”)

E allora parliamone delle guerre: perché si fanno, a chi convengono, chi ci si arricchisce, chi non le ferma e chi le alimenta, in giacca e cravatta da un Consiglio di Amministrazione. Quali e quante sono le fabbriche italiane, anzi le “eccellenze” italiane, che fanno delle armi il loro “Core Business” (Treccani alla definizione Core Business accompagna quanto segue: “Nel linguaggio aziendale, in riferimento ad aziende che abbiano una varietà di forme produttive o di società, l’attività principale che queste aziende svolgono e sulla quale si indirizzano i loro maggiori investimenti”).

Nel nostro Paese “l’export militare è cresciuto di oltre il 30% in cinque anni e aumenterà ulteriormente grazie alla riconversione di Finmeccanica dal civile al militare. L’Italia è l’ottavo esportatore mondiale di armamenti, che fornisce soprattutto a Emirati Arabi Uniti, India e Turchia”. (Leggi qui)

I dati sono alla portata di chiunque, così come i grandi nomi dell’industria italiana legati al mercato delle armi: Alenia Aermacchi, Agusta Westland, GE AVIO, Selex ES, Elettronica, Oto Melara, Intermarine, Piaggio Aero Industries, solo per fare alcuni fra i nomi più in vista. L’Italia ha firmato il Trattato di Messa al Bando delle Mine il 3 dicembre 1997, eppure fino a pochi mesi prima la Valsella Meccanotecnica aveva seminato le proprie mine antiuomo in tutto il mondo. La maggior parte di queste aziende sono di proprietà o partecipate e/o controllate di Finmeccanica.

Da non dimenticare il fatto che spesso la vendita è indirizzata a Paesi in guerra, in violazione della legge 185/1990 che vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi in guerra e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Ma una domanda nasce e chiede una risposta: sarebbe possibile tutto questo senza l’assenso e la complicità delle Istituzioni di Governo o senza l’intermediazione delle Banche?. Interessante, a questo proposito, un articolo del dicembre 2012 (leggi qui). 

Non meno inquietante l’affermazione del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che il 12 ottobre 2016 alla Camera dei Deputati afferma che “… l’Arabia Saudita non è sottoposta ad alcun embargo, dunque vendere armi ai sauditi è un’operazione regolare”.

Tutti dati che, come si può intuire, sono facilmente rintracciabili sulla rete e su cui si può discutere all’infinito. Ma il discorso deve andare oltre e necessariamente spostarsi anche su un altro piano: il mondo del lavoro. Com’è possibile conciliare l’etica del lavoro con la guerra? Possiamo noi, uomini e donne che vivono del proprio lavoro, barattare la certezza di uno stipendio con la nostra intelligenza e la nostra fatica messe al servizio della guerra? Perché questo è il punto. Quando noi entriamo in una fabbrica come quelle elencate, consapevoli di barattare la nostra fatica e la nostra intelligenza per costruire armi, sistemi di puntamento, bombe intelligenti e tutto quanto serve per accendere una guerra … come ci sentiamo con la nostra coscienza? Come rientriamo a casa la sera, sorridenti e sereni?Sì, lo so che la domanda è cattiva e brutale, ma il punto è tutto qui. E non è un punto piccolo e insignificante. Perché poi molti di noi hanno la loro idea della vita, molti di noi storcono il naso di fronte alle migliaia di profughi che scappano dalle guerre, molti di noi condividono l’ipocrisia di “aiutarli a casa loro”.

Già, a casa loro. Magari quella casa che una bomba intelligente ha appena distrutto, aiutata dall’infallibile guida di un sistema di puntamento efficace. Perché davvero il punto è questo. Lo so, non siamo gli unici a fabbricare e vendere armi. Però ci siamo anche noi. Le fabbriche storiche di questo Paese chiudono o hanno giù chiuso, ma quelle che progettano e costruiscono armi no, non hanno chiuso. Anzi, godono di buona salute. E non ci sporchiamo nemmeno più di tanto le mani. Le leggi lo consentono e, quando non lo consentono, si aggirano in mille modi. Ma poi resta la coscienza, per chi ce l’ha. E la coscienza a volte urla, ti sveglia di notte. E ti chiede com’è stata la tua giornata al lavoro, ti chiede come stai, come ti senti quando guardi negli occhi la tua famiglia, quando compri il regalo di Natale per i tuoi figli o quando sei a cena con gli amici. È un po’ stronza la coscienza, quando decide di metterti in croce ci riesce.

E se poi fai il sindacalista, se sei fiero del tuo impegno sociale e politico, se sei convinto di essere un uomo di lotta per il “bene comune”… cosa racconti alla tua coscienza? Davvero riesci a convincerla che hai stipulato un buon contratto che ha salvaguardato posti di lavoro? Ma quanto valgono quei posti lavoro? Davvero riesci a convincerla che quei posti di lavoro valgono la morte per altri che hanno avuto la sfortuna di nascere sotto un altro cielo? No, non ci puoi riuscire. La coscienza, quando c’è, è davvero stronza … fidati. Ti sveglierà sempre di notte e, mentre tu sudi e ti accendi una sigaretta perché non riesci a dormire, ti chiederà:

“…Si parla della guerra: la facciamo, non la facciamo, con chi stiamo, che posizione prendiamo, come la combattiamo. Parlare, discutere, litigare sulla guerra. E viverla? Come si sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema durante la guerra? Proviamo a guardare la realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare questo confine… Cominciamo ad ascoltarne le storie, che sono storie di uomini. Credo che conoscerle sarebbe sufficiente, a quasi tutti noi, per cambiare idea sulla guerra. Storie vere, non manipolate… Proviamoci. Dopo, forse, potremo parlare della guerra a buon diritto e, quasi certamente, in modo diverso…”

Ecco, il punto è tutto qui.

Maurizio Anelli (Sonda.Life) -ilmegafono.org