Turno di notte in acciaieria. È la notte fra il 5 e il 6 Dicembre del 2007, fa freddo a Torino nel mese di Dicembre e la notte avrebbe sempre bisogno di un abbraccio per cacciare via l’inverno. Ma quel gruppo di operai è forte, conosce il valore della fatica e del lavoro e sono lì, nel loro turno di notte. E poi sono amici e la notte passerà presto. La ThyssenKrupp è un’azienda tedesca importante, con decine di migliaia di dipendenti e fatturati da favola, ma quella fabbrica di Torino è in dismissione, non è più necessaria per la casa madre di Essen e vive in uno stato di abbandono: nessun investimento e nessun riguardo alla sicurezza dei lavoratori. Sarà dismessa a breve, non vale la pena…

Eppure quella fabbrica ha una storia che parte da lontano, da quella Torino dove un tempo c’erano le migliaia di operai delle Ferriere Fiat, poi della Finsider, infine della Thyssen. Erano necessari quegli operai, servivano come e più dell’acciaio che producevano. Ma il tempo passa, cambia tutto e arriva il giorno che l’acciaio si può produrre altrove e quegli operai sono inutili, quasi un fastidio. Eppure loro sono li, a fare quel turno di notte perché è il loro lavoro e quello stipendio serve. Ci sono affitti da pagare, figli da crescere, futuri da costruire … cazzo se serve quello stipendio. Non c’è sicurezza in quel reparto, c’è solo la loro esperienza che si sposa con la voglia di non mollare, di resistere una notte di più per portarlo a casa quello stipendio fottuto.

Ma quella notte la loro esperienza e la loro Resistenza non bastano, il fuoco si prende tutto quello che vuole: prima i loro vestiti e poi il loro corpo insieme alla loro vita e alla loro storia, uguale a quella di tanti altri che ogni giorno e ogni notte lavorano per vivere con dignità. Bruciano i loro corpi, cancellati in una sola notte maledetta insieme alla dignità del lavoro, bruciano sacrificati sull’altare di un mondo che non ha più bisogno di loro, delle loro braccia e della loro intelligenza, della loro fatica. La città di Torino, quella stessa città per tanti anni capitale di quel mondo del lavoro di cui gli operai erano il simbolo più vivo, visibile e di esempio, accompagnerà i loro funerali con rabbia e orgoglio.

Qualcuno strappa la corona di fiori della dirigenza Thyssen… No, non dovevano proprio mandarla quella corona di fiori. Lì con loro c’è quel pezzo di Città che sa cosa significa essere Classe Operaia, come a salutare un’epoca straordinaria di lotta e di lavoro che se ne va e che sparisce forse per sempre, e la corona di fiori della Thyssen sembra solo l’ultimo insulto a quel mondo. E così è, senza tanti inutili giri di parole. “La Classe Operaia va in paradiso” era il titolo di un bellissimo film di tanti anni fa, anni in cui quella Classe Operaia trascinava l’Italia della ricostruzione e del miracolo economico, anni in cui ogni diritto si conquistava giorno dopo giorno pagando prezzi altissimi. Serviva la Classe Operaia allora, veniva calpestata tutti i giorni ma serviva. Servivano gli immigrati dal sud che arrivavano a Torino e a Milano con le loro valigie di miseria e di speranza, a Torino comparivano sulle case i cartelli “Non si affitta a Meridionali” ma le fabbriche avevano bisogno di loro.

Quella fabbrica oggi è uno scheletro, un fantasma dismesso come tante fabbriche non solo di Torino, a ricordare quello che un tempo era quel mondo che non c’è più insieme con i tanti che l’hanno costruito, scrivendo una pagina straordinaria della storia di questo Paese. Sono passati nove anni e nelle aule di tribunale sono state emesse sentenze, condanne. Nell’Aprile del 2011 la Corte d’Assise di Torino ha condannato a 16 anni di carcere l’amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, con l’accusa di omicidio volontario. Altri manager sono stati condannati con pene che vanno da un minimo di 10 ad un massimo di 13 anni.

Il processo, dopo l’appello, è arrivato in Cassazione nella primavera del 2016: le pene sono state quasi dimezzate, le accuse di “omicidio volontario” sono state sostituite da “omicidio colposo, omissioni di cautele antinfortunistiche e incendio colposo aggravato”, ma l’impianto accusatorio è rimasto in piedi nonostante la richiesta di Paola Filippi, Sostituto Procuratore Generale, di annullare la sentenza e ritornare gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino. Per l’amministratore delegato della ThyssenKrupp e per un altro manager tedesco però si renderà necessario emettere un mandato di cattura europeo e poi verranno incarcerati nel loro Paese, forse e al massimo per cinque anni, la pena prevista per un omicidio colposo.

Che cosa resta di quella notte di Dicembre del 2007?

(tratto da “Quella notte alla ThyssenKrupp”, che è possibile leggere per intero cliccando qui)

“Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre … Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto “Ragno” per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano.

Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall’umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra… Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili“.

Maurizio Anelli (Sonda.Life) –ilmegafono.org