Urlano indemoniati, quasi automatizzati, invitano a salire e a scendere dai “combi”, pagare il biglietto, indicano i percorsi dei bus sui quali buona parte di Lima si muove. “Baja, baja, baja, sube sube, toda (avenida ndr) Salaverry, toda Canada, toda Aviacion”: urlano cose del genere, sempre con una melodia, supportano l’autista ad aprire e chiudere in tempo le portiere del bus, spesso dei mini-bus, quando scendi praticamente ti scaricano come un pacco per prendere altri passeggeri. Appartengono ad aziende private, figlie della liberalizzazione degli anni di Fujimori. I bus non hanno delle fermate vere e proprie, in alcuni punti chiamati “Paradero” si accumula un pugno di gente e lì si ferma il mezzo, per caricare e scaricare gente. In apparenza un caos, eppure tutti i punti della città sono collegati.

A supportare questo formicaio di piccoli bus privati vi è un “metropolitano”, ovvero un bus su una corsia preferenziale che quindi non soffre il traffico e attraversa particamente Lima grazie a diverse linee e poi un treno sopraelevato, modernissimo, degli ultimi anni. In questo dilemma vivono 11 milioni di persone, nella capitale del Perù. Il traffico può durare per ore, sulla Javier Prado, sulla via Expressa, puoi starci fermo per un po’, venditori di cioccolati e gelati, comici semi-tristi, musicisti da strada intratterranno la tua noia d’attesa sui mini-van. È l’inferno di Lima, delle sue immensità urbane. Strade chilometriche che di sera diventano un fiume di luci e fari.

Spesso dà all’occhio la differenza tra i quartieri che si attraversano: San Isidro, Miraflores o San Borja sono sicuramente migliori de la Victoria o del Callao, in stato d’emergenza nazionale per criminalità fino a un mese fa. A Lima trema la terra spesso, ma nessuno lo chiama terremoto, tutti ti dicono “Temblor”, le case tremano per qualche secondo e poi via. Tutti sanno che è normale, nessuno si allarma, nessuno al contempo però lo vede innocuo. Ne trovi di bambini che ti vendono caramelle in giro, con fare cinematografico cercano di intenerirti, non sempre riesci a dire di no come se nulla fosse.

Dopo il calar del sole in certe zone non si deve andare. Quest’anno il Perù è divenuto il primo produttore mondiale di cocaina, pensare che la Colombia compra l’oro bianco dai peruviani fa capire la potenza che in questo momento il mercato della droga assume nel paese. E ovviamente passa tutto per Lima, per il Callao, il porto del Perù. Piove poco a Lima, in pratica quasi mai: di norma l’aria si fa umida al punto tale da bagnarti, ma senza diluvi. Può restare grigia per settimane la città de los reyes, come venne chiamata un tempo. Pochi i grattacieli, cielo monotono, tanti rumori.

Tra la povertà estrema e il narcotraffico più potente del mondo in termini di produzione di pasta di coca, oltre ad una forte realtà di ONG si affiancano anche tante imprese, e no, non sto parlando delle grandi multinazionali dei “gringos”. Parlo di piccole imprese, fatte di poche persone, che con onestà continuano a esportare i prodotti sani che questa ricca terra produce: quinoa, cacao, zenzero e altre spezie esotiche che sono tanto preziose da far capire perchè questa terra è maledetta.

Tanti commercianti, scaltri ma leali, nobili ed audaci, pieni di vita ed energia che lottano ogni giorno, spesso con la paura di una rapina, troppo spesso con la paura che nei loro container possa finire della droga, eppure vanno avanti. Alle volte anche con la vergogna dinnanzi ai loro dipendenti stranieri, perchè vorrebbero offrirci solo il meglio del loro paese. E questo li rende ancora più nobili. Assumono donne abbandonate e, se qualcuno gli fa la battuta (“Lo fai per gli sgravi fiscali, eh”), ti rispondono che, oltre a non esistere alcun sgravio fiscale per questo, lo fanno perchè hanno sempre imparato che la ricchezza si deve condivere. Qui la condizione sociale non permette l’avidità a chi riesce a guadagnare, anzi, lo pone davanti al dovere di aiutare, se può.

A loro si affiancano i produttori agricoli, uomini d’altri tempi se li incontrate, gente naturale che fa ancora commercio come è giusto che si faccia: con la parola d’onore e con la fiducia. È il Perù sano e onesto, quello che arriva anche a lamentarsi delle tasse, perchè sì, qualcuno qui paga anche quelle, pochi purtroppo. In mezzo a questo inferno c’è chi continua a vivere nella speranza che una vita sana è possibile, che andare in bicicletta al lavoro anche qui un giorno sarà normale e non una cosa straordinaria. Loro non sono i peruviani che lottano nel sociale esplicito, ma bisogna riconoscergli che la loro lotta, quella di una realizzazione personale leale, socialmente, per certi versi è forse ancora più forte di molte realtà che si sono barricate dietro facciate che più che lottare hanno già imparato da noi occidentali come essere “progressisti” senza verità. Anche questo è il Perù ed è giusto che si prenda i suoi meriti.

Sì, la grande Lima sembra l’Ade, sudicio, adornato di fari rossi che sembrano fiamme e pieno di anime agitate, ma poi basta andare la domenica al malecon tra Barranco e Miraflores, sedersi su una panchina e inginocchiarsi davanti al pacifico grigio, potente e immenso. Una massa grigia talmente grandiosa da serbare il calore delle pietre vulcaniche. Sembra un inferno, ma basta alzare ogni tanto la testa e, tra i pini sulla San Felipe alle 5 del mattino, sentirete i passerotti in un concerto d’onore. Miraflores, al calar della sera, avrà le sfumature della Miami degli anni ‘80 e Barranco, boheme con pudore, il sabato pomeriggio è piena di quadri, fisarmoniche e sguardi che sono capaci di farvi bere diversi bicchieri di vino pur di aspettare che quegli occhi ripassino dove siete voi.

C’è anche un trio di signori anziani che parlano in calabrese puro. Hanno ancora la coppola di un tempo. Qui vennero i tedeschi, per andarsene in Amazzonia, vennero i giapponesi, i cinesi, gli italiani, i croati. Il Perù è quella piazza di mezzo, post-coloniale, che fu impero. Ci ha vissuto anche Garibaldi a Lima per poco tempo e lo stesso Melville ne parlava come una città incomprensibile, la più strana di tutti. Il dolce dolore ti prende, solletica i sentimenti che non vuoi ricordare, te li tira quasi fuori. Ma Lima è calma, non ti molesta, ti permette di tenertelo il tuo soave gonfiore, in fondo dall’altro lato del mare c’è il Giappone, c’è l’Asia, alle spalle hai la cordigliera andina e nel cuore c’è la giungla. C’è troppo qui per scomodarti, una lacrima ti scende lenta e poi di nuovo sul bus, tra i gelatai senza voce e le infermiere stanche.

“Non è, no, il ricordo dei suoi terremoti distruttori di cattedrali; né il timor panico suscitato dai suoi mari frenetici; né l’assenza di lacrime dei suoi aridi cieli che non versano mai pioggia; né la vista della sua immensa distesa di guglie contorte, di cornicioni divelti e di croci tutte pendenti (come pennoni inclinati di flotte all’ancora); né i suoi viali suburbani dove i muri delle case giacciono l’imo sull’altro come un mazzo sparpagliato di carte; non sono queste cose soltanto a fare di Lima senza lacrime la città più strana e più triste che si possa vedere”. (Hermann Melville, “Moby Dick”).

Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org

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