Il sindaco di Milano ha deciso: sarà l’esercito a presidiare la città, in particolare, alcune aree come via Padova e la zona di Loreto. La decisione segue l’omicidio di un cittadino dominicano, forse legato al mondo dello spaccio di stupefacenti, proprio in piazzale Loreto. Un fatto di cronaca. Punto. Dentro quella che è la zona più multietnica della città. Con i problemi di tanti quartieri dimenticati dalle amministrazioni, con la criminalità e il degrado che appartengono a tante altre aree, piazze e vie di una metropoli, ma senza mai derive da ghetto, senza quella fisionomia da Bronx che qualcuno mediaticamente vuole scolpire nella testa dei cittadini. Ci sono i luoghi dimessi, i palazzi e le stradine più pericolose, come ci sono anche da altre parti. Ma via Padova è ormai un nome, un immaginario, un universo da connotare necessariamente quasi come irrimediabile.

Perché fa comodo soprattutto a chi governa una città scaricare le proprie responsabilità su qualcosa di più grande e magari rispondere con quelle misure che schiacciano l’occhio a chi le chiede e le attende e che significano allargamento del consenso anche verso le aree più conservatici o, peggio, verso quel nugolo sempre più nutrito di qualunquisti che rappresenta l’ago impazzito della bilancia elettorale. L’esercito, dunque. Che ci pensino loro. Perché via Padova è ritenuta ingovernabile con gli strumenti della politica più nobili, quelli sociali, solidali, civili e urbanistici. Si punta tutto sul controllo, e ci potrebbe pure stare se fosse una normale attività di vigilanza come in qualsiasi altra zona di una città, ma non è possibile pensare che questa sia una soluzione giusta, accettabile. Anzi non è nemmeno una soluzione.

Perché significa rinunciare, vuol dire cedere ai “trumpisti” della prima e dell’ultima ora, ai fomentatori di muri, barriere, divisioni. Via Padova e Loreto sono luoghi nei quali da anni, dal basso, si costruiscono anche importanti esperienze di integrazione. Si costruiscono e ci si aspetta che le istituzioni nel loro insieme facciano la propria parte, diano il loro contributo. Ed è quello che invece è mancato. Si scopre che forse ci si è dimenticati un po’ troppo di questa importante e popolata realtà, i cui ci si ricorda solo quando accade qualcosa. E quando accade in via Padova tutto diventa sempre più grande, gigante, generalizzante, senza via di uscita.

Non resta che la repressione. Una risposta energica. Ma a chi? A coloro i quali, dalla pancia della città, sobillati dai soliti noti, chiedono la linea dura, perché “quello lì è il Bronx”, perché “dovrebbero tornare a casa loro”, perché “noi italiani lì non possiamo nemmeno passare”. Come se, per una parte di individui che annega nella criminalità (non solo straniera peraltro, come insegnano certe storie di questa città), non ci sia un’altra parte, largamente maggioritaria, che vive onestamente, lavora e abita in luoghi nei quali il degrado non è certo colpa loro. Qui sta il tema: se in via Padova ci sono problemi, quei problemi li condividono italiani e stranieri onesti. Se ci sono criminalità, droga, inciviltà, i responsabili sono i criminali e gli incivili, italiani e stranieri.

Non esiste una connotazione etnica del degrado o della violenza. Soprattutto se si pensa che episodi di cronaca altrettanto efferati e gravi, sono avvenuti anche in altre parti di Milano, quelle considerate certamente più chic e vivibili. Ricordate il duplice omicidio di via Muratori, qualche anno fa? Una zona sicuramente più elegante, così come altre nelle quali si sono consumati assassinii. Nessuno parlò di quartiere, di zona, perché era chiaro che si trattasse di un agguato davanti a un esercizio commerciale ed è qualcosa che può avvenire ovunque. Oppure pensiamo all’assassinio di un povero innocente, un ragazzo ventenne di origine albanese, massacrato da un gruppo di giovani appartenenti a una delle famigerate pandillas, dentro un tram in Porta Lodovica, alle spalle della Bocconi.

Lì nessuno parlò troppo, nessuno mandò l’esercito a presidiare i tram notturni (e lì forse ce ne sarebbe davvero bisogno). Anche i quotidiani atti di delinquenza, dallo spaccio alle rapine, alle risse, ai furti, avvengono in tutta la città e in svariati quartieri. Ma se accade in via Padova assume sempre una risonanza enorme e scatena la retorica della severità o dell’odio. Nessuno nega il degrado o la criminalità, ma che senso ha mandare l’esercito così, come uno spot elettorale per comunicare ai cittadini, ai qualunquisti, ai razzisti eccitati e ai radical chic inorriditi, che in quella via, presentata esageratamente come un inferno, come un fallimento dell’integrazione, si interverrà con le divise? Come se tutto si riducesse a questo. Come se, nel caso, servisse a qualcosa. Come se non fosse prioritaria una politica maiuscola capace di rendere concreti gli sforzi di chi opera nel sociale, sul territorio.

Una politica in grado di entrare in quel territorio con gli strumenti della progettualità, dell’educazione, dell’inclusione, dello scambio reciproco, della coesione. La storia che ci siano problemi irrisolvibili senza l’esercito è qualcosa che abbiamo sentito spesso, in tanti contesti, dipinti in maniera molto più negativa di quanto non fosse poi la realtà. È il solito modo per delegare, nascondersi, non agire sul serio. Non è il modo di gestire un problema, qualsiasi esso sia. È il fallimento non dell’integrazione, come qualcuno urla a bocca piena, ma della politica affidata a chi non ha la capacità di guardare oltre i muri e il consenso e allora preferisce le soluzioni facili e inutili alle scelte illuminate e difficili.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org