Non ne conosco il nome e il volto, ma riesco a immaginarne gli occhi. Gli occhi di una ragazzina che, ancora bambina, ha dovuto guardare in faccia l’orrore. Il più atroce, il più spietato. Quello che ti ammazza dentro, che uccide i tuoi tredici anni, facendo leva su una paura terrificante e su mille altri sentimenti che diventano catene, gabbie, loculi bui e silenziosi nei quali viene sepolta la tua gioia di vivere. Un orrore vigliacco che ha i volti ghignanti di nove vermi, maschi della sottospecie umana, quella che non meriterebbe garanzie, diritto alla difesa, tentativi sociologici di recupero, ma soltanto una reclusione isolata fino alla fine della loro inutile e nociva esistenza. Perché non è possibile immaginare sanzioni diverse per chi agisce come i giovani mostri di Melito Porto Salvo, comune calabrese che somiglia all’inferno.

Non solo per la violenza indicibile che ha lasciato si compiesse, ma anche e soprattutto per il dopo, per quel cocciuto e squallido rigurgito di crudeltà e cattiveria che fa crollare qualsiasi alibi e rende ancora più eloquente la precedente omertà. Di solito, dinnanzi a fatti di cronaca come questi, non è mai giusto generalizzare, c’è sempre spazio per una parte migliore, per qualcosa che si differenzi, che regali un minimo di speranza catartica in mezzo alla tragedia. Questa volta non è così. Siamo di fronte a un’eccezione tossica. A Melito Porto Salvo non si salva nessuno. Dal sindaco al prete, dal cittadino comune alle madri, ai giovani, alla scuola. Alle famiglie.

Lo dicono i fatti. Lo dice la solitudine alla quale è stata condannata la vittima. Lo dicono le parole terribili che offendono qualsiasi principio di umanità. Una ragazzina di tredici anni è diventata la vittima sacrificale delle meschinità di un paese di codardi. Gli omertosi, quelli che hanno taciuto, quelli che oggi si autoassolvono e sperano nella comprensione di chi pensa che non ci si possa mettere contro un violento, contro il rampollo di un boss e i suoi amici figli di militari o parenti di poliziotti. E poi gli altri, quelli che hanno sfacciatamente accettato, perché convinti che una donna debba subire, obbedire anche agli istinti più infimi degli orchi, dei maschi ai quali tutto è concesso. Anche stuprare, in gruppo, ripetutamente, per tre anni di fila, una bambina.

Una tredicenne i cui segnali di aiuto sono stati ignorati. Da tutti. Una piccola donna che oggi è stata strappata alle grinfie unte dei suoi aguzzini, ma che è rimasta impigliata nella grettezza sporca dei suoi concittadini. “Se l’è andata a cercare”, dicono. Parlano di prostituzione, di ragazza che “non sa stare al posto suo”. Solidarizzano con gli stupratori, in quel solito infame meccanismo di liquefazione delle responsabilità. “Sono stati provocati”, dicono le bocche di fogna di questo miserabile paesino. Ancor peggio, a mio avviso, quello che afferma un parroco, quando si spinge a dire che anche i ragazzi sono vittime. Non c’è spazio alcuno per l’umanità, per la ragione, per la verità. La vittima deve essere per forza colpevole o, nel migliore dei casi, corresponsabile. I maschi no, quelli di colpe non ne hanno mai.

E a sostenerlo sono anche quelle donne di Melito che, intervistate dai giornalisti, buttano la croce addosso a una bambina e piantano altri chiodi sul suo corpo già martoriato. Sono le stesse persone che la domenica vanno in chiesa, che partecipano alle processioni, quelle che concordano con il parroco sul fatto che anche i violenti, gli stupratori, siano vittime. Di fronte a tutto questo, il sindaco si dichiara offeso. Non per le parole oscene dei suoi concittadini, non per la vergogna della loro tacita complicità, ma per le ricostruzioni fornite dalla stampa che infangano la sua città. Come se le parole dei magistrati e degli inquirenti fossero inventate. Come se quello stato di omertosa arretratezza e di crudeltà fosse una ricostruzione giornalistica.

E dire che anche il sindaco e le donne intervistate hanno figli e figlie. Sarebbe potuto accadere anche a loro. Dovrebbero sapere che, se quelle nove belve dovessero rimanere impunite o tornare presto in giro, come sicuramente avverrà in un Paese privo di una legislazione severa che sanzioni la violenza sessuale su donne e minori, tutte le ragazze di Melito sarebbero a rischio. Perché l’impunità rafforza il crimine. La deresponsabilizzazione generale favorisce il perpetuarsi di certe mostruosità. Se per una intera comunità lo stupro di gruppo è colpa delle donne, delle vittime, allora non ci saranno mai freni alla violenza, perché essa diviene socialmente accettata. In terra di ‘ndrangheta, poi, dove esiste una lunga storiografia sul ruolo subalterno a cui la donna è costretta, questo assume proporzioni ancora più preoccupanti.

Sia chiaro: non ci si riferisce alla Calabria o al Sud, perché gli episodi di violenza e stupri, come sappiamo, sono squarci di orrore distribuiti in tutta Italia, ma a singoli contesti nel quale diversi elementi si sommano e producono un quadro desolante che impedisce di rintracciare diversificazioni. Il riferimento è proprio a Melito Porto Salvo, che, al di là delle proteste del sindaco, non fa nulla per mostrare una faccia diversa. Forse semplicemente perché non ne ha altre, ha solo questa. Ed è crudele, misera, mostruosa. Un luogo dal quale quella bambina dovrà andare via, dovrà allontanarsi, da quelle strade e dalla sua famiglia che non ha saputo proteggerla. Ha ancora la possibilità di salvarsi, di ritornare, dopo un percorso lunghissimo e doloroso, a vivere una vita normale. Sarà durissima, ma può ancora riuscirci. Ma lontano da quell’inferno che non sembra avere possibilità di redenzione.

Dispiace per quelle poche centinaia di persone oneste che hanno provato a rimediare o a mostrare un lato migliore. Troppo poche, soprattutto se si pensa che, delle circa 400 persone scese in piazza per manifestare solidarietà alla ragazza, buona parte veniva da altri comuni. Dispiace per loro, perché rimangono soffocate dai liquami subculturali delle altre 14mila persone che compongono Melito e che il primo cittadino, con il suo atteggiamento, ha indirettamente voluto difendere e rappresentare. Non ha fatto un buon servizio al suo paese. Magari lui otterrà così la rielezione, ma di sicuro la sua comunità ne esce malissimo. Come merita.

Mi auguro allora che, semmai Melito avesse una qualche forma di attrattiva turistica o produca generi alimentari che arrivano nei nostri mercati e supermercati, questa storia possa fare in modo che in tanti boicottino quel territorio e i suoi prodotti. E se qualcuno dei cittadini o dei loro rappresentanti dovesse lamentarsi, non ci saranno risposte diverse da dare se non: “ve la siete andata a cercare”. In questo caso, però, per davvero.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org