Giovanissimi e annoiati. Giovanissimi e arroganti. Giovanissimi e spietati. Comune denominatore: la voglia di terrorizzare o di punire. Di sentirsi forti, ma sempre in branco o con il sostegno di un’arma, in una lotta impari con le loro vittime innocenti. Sono storie che vengono dalla cronaca di questi giorni e sono l’ennesimo campanello di allarme su un degrado generale di certe fasce delle giovani generazioni. Lontanissime da modelli positivi, da aggregazioni culturali efficaci. Facile dire che sbaglia la scuola o che cinema e tv incitano all’emulazione, costruendo eroi negativi che esercitano un fascino irresistibile su animi semplici da plasmare. Sembra troppo riduttivo.

Vero è che la scuola qualcuno l’ha smembrata e umiliata, rendendo più difficile il lavoro che essa svolge sulla formazione del buon cittadino. È altrettanto vero che certi personaggi possano avere una certa attrattiva, soprattutto in certi ambienti già segnati da degrado, abbandono ed emarginazione. Ma fino a un certo punto. Perché l’emarginazione dovrebbe spingere alla rabbia, alla voglia di riscatto, che potrebbe condurre anche a strade positive, mentre ultimamente pare che il sentimento prevalente sia la noia. Un sentimento che non produce mai nulla di buono e che non c’entra con l’emarginazione o il degrado. È la stessa noia, infatti, che colpisce chi, in ambienti e contesti assolutamente normali, privi di qualsiasi alibi sociale, commette reati altrettanto efferati.

La verità è che ormai si spara e si uccide per gioco, per provare quell’adrenalina che serve a riempire una vita piatta. D’altra parte, se i problemi fossero solo la scuola o i film, sarebbe facile risolverli. Ma è evidente che il virus è generale e attiene a un modello di società fallimentare, dove il profitto, il benessere a tutti i costi, la bella vita, il potere, l’impunità, l’assenza di solidarietà hanno spazzato via anche quei valori che, un tempo, resistevano e rendevano il crimine una scelta legata a situazioni differenti. Oggi siamo davanti a qualcosa di più pericoloso, perché meno controllabile, meno riconducibile a un gruppo, a un clan, a una evidente e identificabile formazione criminale.

Napoli. La paranza dei ragazzini, dei giovanissimi che sognano di vivere da boss, non si occupa solo di regolare i conti con i rivali, con chi sgarra o semplicemente non obbedisce, non si piega. C’è qualcosa che supera la già spietata logica criminale. Ci sono anche il senso di onnipotenza, la voglia di essere temuti, ma anche il desiderio di ammazzare la noia. In che modo? Con la “stesa”, ad esempio. Gruppi di giovani camorristi che sparano per strada, tra la gente, tra gli avventori dei bar, tra i passanti, tra i lavoratori o le casalinghe che vanno a fare la spesa. Puntano le armi e sparano per spaventare. Non importa se si rischia che ci scappi il morto. Loro sparano, come fosse un gioco dentro a una console. E la gente deve abbassarsi e schivare. Deve stendersi (ecco perché si chiama “stesa”). Quale sarebbe l’emulazione qui? Cosa c’entra la scuola?

Forse c’entrano di più le famiglie e una società che offre poco e che ha completamente ridotto al minimo il valore di una vita. Forse se qualcuno si eccita davanti a un personaggio criminale di una serie tv, invece di accusare gli sceneggiatori bisognerebbe riflettere sul perché qualcuno si identifichi con tale infima rappresentazione dell’essere umano. Qualche anno fa, negli Stati Uniti, i film di Tarantino finirono sotto accusa perché due ragazzi, arrestati per un delitto efferato, dissero di essersi ispirati alle sue pellicole.

In mezzo a quel dibattito infuocato, un sociologo disse la cosa più semplice e vera: il fatto che due assassini siano stati ispirati da Tarantino non vuol dire che è il film che invita a delinquere, altrimenti, considerato che milioni di persone hanno visto le opere del regista americano, ci sarebbero stati milioni di delitti simili. Il problema piuttosto è capire dove ha fallito la società di fronte a quei due giovanissimi che hanno scelto di uccidere per noia o per gioco. Per il gusto di vedere cosa si provasse. Quel ragionamento non faceva e non fa una piega.

Floridia, provincia di Siracusa. Un panettiere, lavoratore onesto, iscritto all’associazione antiracket, persona paziente e umana, subiva da mesi vessazioni da tre ragazzini. Due minori e un diciottenne. Oltre a deriderlo, i tre organizzavano dei veri e propri raid. Andavano in panetteria, prendevano pane, pizze e non le pagavano. E in più disturbavano i lavoranti. Di giorno e di notte. Lui, uomo gentile, cercava di passarci su, cercava di difendersi senza reazioni violente. Forse capiva che si trattava di tre ragazzi difficili e non voleva metterli nei guai, magari avrà pensato al loro futuro e valutato che sopportare furti e derisioni fosse il prezzo da pagare pur di non rovinare la vita a tre ragazzini. Ha provato a dialogare. Ma loro, arroganti ed eccitati dal branco, ne approfittavano. Alzavano il tiro, aumentavano il carico di violenza. Fino a quando non hanno provocato la reazione dell’uomo, esasperato, che si è comunque limitato a intimare di lasciarlo in pace, minacciandoli con una pala. Niente di più.

Quella reazione gli è costata la vita. Lo hanno ammazzato di notte, mentre era in macchina non lontano dal panificio. Sei colpi. Sparati con l’intenzione di uccidere. Uno si è rivelato mortale. Un uomo onesto e gentile ucciso per sete di vendetta da tre ragazzini che passavano il tempo a uccidere la noia tormentando chi lavorava per vivere. Cosa resta dopo tutto questo? Solo un senso amaro di rabbiosa impotenza. C’è troppa solitudine dinnanzi al crimine. C’è la difficoltà di identificare un potenziale assassino. Sono troppi, nascosti ovunque. I colpi di pistola, oggi, possono arrivarci addosso in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.

Perché per molta gente, soprattutto giovanissimi, la vita vale poco e niente. Vale quanto quella di un qualsiasi personaggio di un videogame. Spari e uccidi. E la partita continua. Spari e terrorizzi la gente. E ridi e ti senti forte. Intoccabile. Fino a quando qualcuno non ucciderà te. Perché è così che si finisce prima o poi. Non può esistere in eterno la parola vita dentro una palude di morte quotidiana. Una palude nella quale si sentono il silenzio assordante dell’indifferenza e il rumoroso dolore degli onesti. Una palude che nasce dai canali di scolo di una società in caduta libera, dove più che a vivere, l’essere umano è costretto a sopravvivere. Sperando di non finire, da innocente, sotto un proiettile. Sparato per vendetta o per gioco.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org