Ci sono dei gruppi che diventano conforto, protesta, ribellione e ti fanno scoprire il dolore di un fallimento, l’urgenza di una rivincita, la passionale tenacia di un amante, la dolcezza di un abbraccio. Ci sono canzoni, parole e gruppi che ti accompagnano da una vita e ogni volta ti trovi ad esclamare: “Questo album è il più riuscito, il più bello! Non c’è alcun dubbio! Che idea! Che ritmo! Che testi!”. Bene, con gli Afterhours succede proprio questo.

Quello che vi presentiamo oggi è un doppio album di poesia, rabbia, ritmi ora tenui, ora irriverenti, talvolta incazzati e incalzanti. Due dischi, dal titolo “Folfiri o Folfox”, come i due trattamenti chemioterapici ai quali, spiega il cantautore Manuel Agnelli, “mio padre si stava sottoponendo, ma che suonano come una filastrocca scema o come un titolo della Cramps Records”. “È la storia – continua – di un bambino che non crede in Dio e, in un sogno, si fa promettere da suo padre che loro due non sarebbero mai morti. Non ho mai avuto bisogno così tanto di scrivere e comporre un disco”. E questa urgenza e questa voglia trapelano da ogni traccia.

Un disco dolcissimo, complesso e inatteso. Come inattesa, complessa e drammatica è spesso la vita. Questo album dimostra che la musica resta la migliore risposta ad ogni lontananza e l’unica promessa che possiamo fare a noi stessi e agli altri e che possiamo mantenere. La promessa che tanti anni fa Manuel Agnelli ci aveva fatto di essere sempre rock e rivoluzione. La promessa che testardamente ancora riesce a mantenere. Al punto che, nonostante il tema della morte sia così lontano dai dischi passati, il suo stile, la sua musica rimangono coerenti. D’altronde, alla fine la morte non è forse “un rapace che viene a mutilare la pace”? E al suo cospetto non si diventa troppo bianchi “per restare mano nella mano con noi stessi?”. Non possiamo che ringraziare gli Afterhours di non averci mai traditi.

Commuove assistere al patto di un bimbo col suo papà: “Avevamo un patto io e te e l’hai tradito tu, perché io diventassi grande scoprendo che il dolore non era la destinazione vera” (nel brano Grande). Un piano e una voce per carezzare ogni ricordo, come nella seconda traccia L’odore della giacca di mio padre. Nascosti in una stanza assolata (Oggi, prima traccia del secondo album) in un istante durante il quale guarisce tutto e “il tuo male ora non ci troverà mai”. In Noi non faremo niente, gli archi raccontano e cercano con noi la strada più veloce dove il dolore diventa desiderio di non sentire più niente e di non essere raggiunti e feriti.

La track-title Folfiri o folfox è invece una canzone-filastrocca quasi irritante, come può essere diventare un minuscolo numero tra i grandi numeri. Una canzone nella quale un fatalista cerca di cucire addosso a un ribelle la stessa cura. A un certo punto, d’improvviso, il pianoforte e una voce irriverente e profondissima ci trascinano nel fondo di questo vortice anestetizzato. Questo ultimo album degli Afterhours è fortemente intimo, ma non rinuncia ugualmente ai rumori, ai suoni duri e rabbiosi.

Ci sono infatti anche ritmi cupi e quasi metal, come ad esempio in Il mio popolo si fa, dove traspare la pochezza delle nostre fedi, “Dio Fortuna e Trans”, e l’unico credo diventa: “Se non puoi fare niente di bello devasta qualcosa di bello”. Uno sguardo smaliziato e critico di quello che siamo diventati. Ancora, in Cetubimax, la musica è violenza e ribellione, fatta di suoni distorti e segnata da un vortice di suoni sintetizzati che non lascia via di scampo, non lascia ordine né pace. 

In questo disco, c’è spazio anche per l’amore, un amore fatto di occhi blu e di dolcissimi inganni, di prime volte per liberarsi (Fa male solo la prima volta). E c’è spazio anche per la preghiera. San Miguel è una preghiera tribale e mistica, con giochi primordiali e la supplica di non diventare preda in una terra di predatori. Ophryx, che è il nome di una pianta della famiglia delle orchidee (che troviamo anche sulla copertina dell’album), sembra un requiem dolcissimo e straziante, dove i violini sembrano l’unica preghiera possibile.

“Tutto il resto è stupido! Voglio provare a vivere”, canta Manuel Agnelli in Se io fossi il giudice. Tra un cielo di violini e la volontà di essere liberi e di non piacere più, ritroviamo tutta la forza delle sue dichiarazioni: “Voglio essere libero per poter dire, come mio padre, di non aver paura di morire, perché la vita, qualsiasi cosa significhi, l’ho vissuta perché lo volevo, non perché dovevo. Di questo parla il disco. Voglio essere felice e non me ne frega più un cazzo se è la cosa più banale del mondo”.

Non possiamo, pertanto, che ascoltare questo doppio album come una preghiera, credendo alla mistica magia che ci propone. Non possiamo che credere a questo dolore e abbracciare questo intimo bisogno di libertà, cercando di farlo anche nostro.

FrankaZappa –ilmegafono.org