È successo ancora. Quattro anni fa fu un mio amico tunisino, proprietario di una pizzeria da asporto, residente in Italia ormai da più di quindici anni; questa volta è il turno di un egiziano, proprietario di un panificio e residente in Italia da venti anni. Quella volta fu una discussione delle tante, stimolata da un fatto o da un libro sul tema delle migrazioni; questa volta è stata una discussione casuale tra il fornaio e un cliente, originata da una non meglio precisata analisi del voto (sono arrivato quando il tema era già quello dell’immigrazione in Italia). Uscito il cliente, per curiosità ho chiesto al proprietario/fornaio egiziano di illuminarmi.

“Quelli che arrivano, non sono tutti bravi. Ci sono quelli che non vogliono far niente e spacciano. Ecco quelli bisogna mandarli via”. Fino a qui, lasciando perdere le complesse dinamiche sociologiche sulle cause sociali dei comportamenti devianti, tutto abbastanza banale, lo lascio continuare, anche se un po’ di domande gliele vorrei porre. “A parte chi scappa dalle guerre, quelli che arrivano in barca non vogliono fare niente, noi paghiamo 45 euro al giorno a loro. E loro sono per l’80% terroristi dell’Isis, gente che viene qui per fare danno”. E qui lo interrompo.

Replico, così come replico quando mi dice che la maggior parte dei migranti sa che “qui non si vive bene ma nonostante ciò parte lo stesso” (rifugiati compresi? Non mi risponde) o quando dice che non è possibile essere certi di cosa intimamente i musulmani, anche quelli che sembrano moderati, nascondano a proposito dell’Isis. Controbattere a certi discorsi da uomo qualunque sarebbe sin troppo facile, basta mantenere la calma, ma a volte comincio a credere che non ne valga la pena. Meglio salutare, andare via e riflettere. Come quattro anni fa, quando il mio interlocutore di allora, un bel po’ più colto di quest’ultimo, mi parlava di flussi, di controlli, di rimpatri necessari, di essere giusti ma non buonisti.

Non è una novità, è un meccanismo piuttosto consueto quello che trasforma l’uomo venuto da lontano, che ha lottato, ha subito e poi si è riscattato con le proprie forze, il proprio lavoro, in denigratore dei suoi stessi fratelli, della gente della sua terra. Una sorta di resa all’assimilazione culturale, un tentativo di farsi accettare come un “uomo nuovo”, dove quell’uomo nuovo sta per “uomo che oggi la pensa come la gente del luogo di arrivo”. Senza porsi nemmeno il dubbio che non tutta la gente del luogo di arrivo la pensa così, per fortuna. Avveniva (e ancora avviene) anche con la migrazione interna. Meridionali emigrati al nord, con tanta buona volontà, dignità, capacità, abili a riuscire nel loro percorso, nel lavoro, nel farsi una vita e una posizione e subito dopo pronti a sputare sulle proprie origini, accettare gli stereotipi sudici e sprezzanti nei confronti della propria gente.

Una sorta di assurdo e fasullo complesso di inferiorità, una corresponsabilità nella diffusione di idee distorte sulle proprie realtà di partenza, spesso furbescamente nascoste dietro battute, comicità basate sulla semplificazione. Così, oggi, il Sud viene più spesso identificato con il faccione grassoccio dell’impiegato comunale sfaticato e raccomandato che legge il giornale tutto il giorno, piuttosto che con lo sguardo arguto di Vittorini, Sciascia, Pirandello, Bufalino, Consolo, Fava e tanti altri. Un meccanismo perverso che adesso tocca i migranti che vengono da altri paesi, soprattutto se culturalmente diversi dall’agognato Occidente. Non è una scoperta, non è qualcosa che sconvolge se si pensa che Jean Marie Le Pen, alle presidenziali francesi nel 2002 e nel 2007, prese voti anche nelle banlieue, da cittadini francesi di origine straniera, gli stessi che affermava di voler lavare con il kärcher (l’idropulitore per lavaggio auto).

Perché? Sempre per quel meccanismo, che ormai conosciamo ma sul quale dovremmo ragionare. Perché non è solo un meccanismo psicologico di conservazione, di autodifesa egoistica dei propri interessi, ma è anche il frutto del nostro modo di parlare di immigrazione, di una informazione sbagliata, della disinformazione strategica, della sottocultura che il nostro linguaggio politico veicola, creando odio, paure, insicurezze e fomentando una guerra tra poveri assurda. In quella guerra, chi da povero diventa leggermente più ricco, chi non si riconosce nel fratello brutto, sporco e potenzialmente minaccioso (sulla base di false descrizioni) finisce per saltare il fosso e diventarne il nemico più agguerrito, finisce per fare e dire (e credere) di tutto pur di apparirne il più diverso e distante possibile.

Contro questa distorsione, ci possono aiutare solo la cultura e una informazione corretta, quella che dovrebbe spingere il mio interlocutore a puntare il dito su chi veramente si frega milioni di euro sulla pelle dei suoi fratelli migranti (come i centri di accoglienza che vengono pian piano beccati dalla magistratura, ultimo caso a Siracusa con 5 finte onlus e 19 persone denunciate per evasione per oltre 4 milioni di euro). Soprattutto ci potrebbe aiutare uno Stato che, invece di progettare misure restrittive e intanto distribuire soldi a cascata a faccendieri, imprese di pulizia, ex guardie giurate, gente che a occhio si capisce non possieda alcun requisito per gestire migranti e ancor peggio minori stranieri, scelga di cambiare direzione e investire nel riconoscimento dei diritti.

Perché più si creerà cittadinanza, più crescerà economicamente e socialmente questo Paese. E pian piano anche culturalmente. Così forse anche io potrò tornare a comprare il pane senza avvelenarmi il fegato e senza sentir vacillare la mia speranza in un mondo più umano e solidale.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org