Nel dibattito sull’accoglienza, tra coloro che si schierano contro le barriere e per la necessità di accogliere, c’è anche una parte piuttosto consistente che fa riferimento solo ai profughi scacciati dalle guerre, quelle che ci sono note, che sono immediatamente riconoscibili. Chi ha diritto a entrare è dunque solo chi proviene da aree dilaniate dai conflitti o segnate ancora dal terrorismo e da scontri interni molto violenti. Nella percezione comune, inoltre, quando si parla di profughi, in questo momento, si pensa quasi esclusivamente alla Siria. Poi, con un po’ di sforzo, si riescono a considerare le situazioni di Somalia, Libia, Eritrea e, eventualmente, Iraq e Afghanistan. Tutto il resto scompare.

Così come scompaiono i migranti economici, coloro che vorrebbero semplicemente spostarsi laddove vi è la possibilità di lavorare e di salvarsi dalla miseria delle proprie terre di origine. Per questo tipo di migranti, quando si affronta il tema dell’accoglienza, ormai non vi è spazio. Come se la miseria di certe zone non fosse responsabilità (peraltro con percentuale elevata) anche di noi europei e del nostro passato. Il problema, però, è anche un altro, ossia che dietro l’etichetta di “migrante economico”, con la quale le autorità italiane timbrano il rifiuto al soggiorno, si nascondono molto spesso situazioni parecchio simili a chi scappa da un conflitto. Ci sono infatti nazioni non in guerra ma governate da regimi dittatoriali spietati, nelle quali la libertà e i diritti umani sono negati con metodi repressivi che prevedono sparizioni, torture, uccisioni, persecuzioni infinite.

Alcuni di questi paesi vantano accordi di cooperazione con l’Italia, mirati al controllo dei flussi migratori e alla gestione dei rimpatri, nonostante i dossier internazionali sulla dimostrata e perpetua violazione dei diritti umani. Una delle nazioni in questione è il Gambia, piccolo stato africano addossato al Senegal, con circa due milioni di abitanti, e governato da più di venti anni (dal golpe del 1994) dal dittatore Yahya Jammeh. Le violenze del regime gambiano sono terribili, i meccanismi di tacitazione del dissenso sono attivati con crudeltà da polizia e militari che riempiono le strade.

Arresti, oppositori che spariscono nel nulla, manifestazioni represse nel sangue, torture, omosessuali perseguitati e schiacciati da un reato, quello di “omosessualità aggravata”, che costa la condanna all’ergastolo. Una situazione terribile che si unisce a una condizione economica pessima. L’Europa ha rapporti diretti con il regime gambiano da molto tempo, ha perfino prodotto programmi di sostegno economico, salvo interrompere gli aiuti, due anni fa, dopo le denunce di Amnesty International sulle violazioni gravissime compiute da Jammeh e dal suo governo. L’Italia, invece, i rapporti continua ad averli senza alcun imbarazzo.

A giugno del 2015, il ministro Gentiloni annunciò di aver stipulato un accordo con il Gambia riguardante l’immigrazione via mare; risulta in essere anche un accordo tra il nostro capo della Polizia e quello del Gambia, che prevede forniture, supporti logistici e corsi di formazione da parte nostra, in cambio di rimpatri. Un patto che conferma quello già fatto nel 2010 dall’allora ministro Maroni e mirato al controllo delle frontiere gambiane per frenare l’immigrazione dal paese di Jammeh. Sollecitato da una interrogazione parlamentare (del 5 agosto 2015) presentata da cinque senatori di Sel e volta a chiarire i contenuti (al momento ancora ignoti) di un accordo con un paese dittatoriale i cui crimini erano già noti (il rapporto di Amnesty è infatti del 2014), il ministro Gentiloni non ha mai risposto.

Intanto, dal Gambia si continua a fuggire, al punto che i gambiani in Italia, nel 2015, sono diventati la seconda nazionalità (dietro solo alla Nigeria) tra i richiedenti asilo. Nel 2014, ben 8500 gambiani hanno chiesto asilo o protezione al nostro Paese. Il problema è che il 66% di queste domande è stato rigettato. E molti non sono riusciti nemmeno a presentarla la domanda, per via di quella che è una disfunzione atavica del sistema di identificazione italiano. Come denuncia il Centro Astalli, negli hot-spot alle nostre frontiere marine si ha “la tendenza a distinguere i migranti dalle persone bisognose di protezione esclusivamente in base alla loro nazionalità. Cittadini provenienti da alcuni paesi africani come Gambia, Senegal, Nigeria o Ghana sono automaticamente considerati ‘non rifugiati’ e pertanto non ammessi alla procedura d’asilo”.

Così, a migliaia di cittadini del Gambia, in fuga dalla dittatura, non viene data l’opportunità nemmeno di spiegare le ragioni per la presentazione della domanda e viene subito dato il decreto di espulsione, ossia quel famigerato foglio che intima di lasciare il Paese entro pochi giorni. Sarebbe utile sapere da Renzi e Gentiloni, che oggi insistono sulla collaborazione con i paesi africani per frenare “l’emergenza”, quanti cittadini del Gambia sono stati rispediti indietro, nell’ambito dell’accordo stipulato con il regime. Perché è chiaro che una volta tornati in patria, ad attendere coloro che hanno provato a fuggire e si sono resi irreperibili, e che magari sono oppositori politici, non ci saranno certo carezze affettuose o applausi, ma violenza e morte di cui il nostro governo sarebbe corresponsabile.

Il Gambia, peraltro, è solo uno dei casi, perché di migranti bollati immediatamente come migranti economici, senza che si provveda a verificare l’esistenza di un diritto alla protezione, ce ne sono tanti. Basti pensare a nigeriani o a camerunensi del sud o ai cittadini del Niger, che stanno fuggendo dal terrore di Boko Haram. Ecco, forse più che proporre euro-bond per “aiutarli a casa loro” e autoproclamare l’umanità dell’Italia e della sua accoglienza, nel nome di quella stucchevole convinzione affidata alla celebre quanto fasulla espressione “italiani brava gente”, sarebbe il caso di rivedere una volta per tutte le procedure all’arrivo, evitando funeste semplificazioni, e soprattutto di cancellare tutti gli accordi di cooperazione sottoscritti (presenti e passati) con paesi guidati da dittatori sanguinari. Evitando, nel frattempo, di siglarne altri nuovi con altre nazioni.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org