Sono passati dieci anni dall’uscita di “Gomorra”, il libro che ha reso di dominio nazionale i vizi della realtà affaristica e camorristica campana (e non solo), soprattutto dei clan di Napoli e Caserta, e ha fatto conoscere storie tragiche di lotta e dignità, come quelle di don Peppino Diana o del carabiniere Salvatore Nuvoletta. Dieci anni che hanno cambiato la percezione della camorra e certamente la vita dello scrittore napoletano, diventato celebre ma soprattutto costretto a vivere blindato, sotto scorta, lontano dalla sua città. In questi giorni, è ripartita la serie tv ispirata al suo libro, e come sempre non manca chi storce il naso, chi critica soprattutto lo scrittore, accusato di raccontare solo una parte della realtà, dimenticando spesso l’altra, quella che lotta, che lontano dai riflettori si batte ogni giorno, tra mille difficoltà, rischiando in prima persona, costruendo speranza e legalità.

C’è chi afferma, già dalla prima serie, che “Gomorra” sia pericolosa, perché rischia di sollecitare emulazione soprattutto nei più giovani e a maggior ragione in certi quartieri. Rischia di rendere affascinanti i criminali, di renderli personaggi da imitare, facendo perdere di vista la loro brutalità. Come avvenuto per altre serie tv del passato, dove la mafia appariva vincente, dove i boss spietati venivano umanizzati. Tutti dubbi legittimi, ma che in questo caso sono confutabili.

La realtà raccontata per immagini, in questa serie tv, ha la stessa atmosfera buia del libro da cui trae origine. Anzi è ancora più cupa. C’è il racconto realistico ed esclusivo di quella che è la vita dentro la camorra. Non c’è molto spazio per chi combatte contro i clan, per magistrati, poliziotti, giornalisti, personaggi buoni. Questo Gomorra ha volutamente scelto di raccontare, da dentro, la violenza e la miserabilità dei camorristi. Una vita senza uscita, dove il tempo e il destino sono scanditi da sangue, lutti, pallottole. Non c’è mai catarsi. Allora, idealizzare un mondo simile, emularne i protagonisti non è immaginabile per chi ha un certo tipo di coscienza o senso umano.

Se qualcuno davvero mitizza quei personaggi e pensa di sognare quella vita, forse è un problema legato alla società in cui viviamo e alle carenze educative e sociali che rendono possibili certi orrori e certe deviazioni. Non ce la si può prendere con un film che è trasparente e intende raccontare solo una parte. Vale lo stesso per il libro, per quello che Saviano ha fatto. “Volevo che le mie parole – scrive Saviano su Repubblica – fossero un pugno nello stomaco, che togliessero il sonno. Volevo che facessero paura semplicemente illuminando un angolo di mondo rimasto in ombra troppo a lungo”. Questo era il suo obiettivo, raccontando quello che in troppi non sapevano, soprattutto al di fuori della Campania, delle caserme e delle aule di tribunale.

Obiettivo raggiunto, se è vero che oggi i nomi di Setola, Iovine, Bidognetti, Schiavone li conosciamo tutti. Anche a chilometri di distanza da una realtà che non viviamo ogni giorno. Eppure si continua a dire che l’immagine che si fornisce di quei luoghi è troppo negativa, non veritiera perché tace tutto il resto. Questa accusa l’ho sentita fare altre volte, l’ho sentita rivolgere anche a giornalisti e magistrati siciliani che oggi amiamo e veneriamo, ma che, quando erano in vita, venivano denigrati, sottoposti a un fuoco incrociato senza precedenti. Come se la colpa fosse di chi lavora o di chi racconta. Dimenticando d’un tratto che i colpevoli sono soprattutto i protagonisti negativi di quella narrazione. E dimenticando anche che chi racconta una parte non intende certo generalizzare e che casomai è proprio nella coscienza di chi lancia accuse o protesta che andrebbe individuato il persistere di qualche complesso dannoso.

Con questo non voglio dire che Saviano sia infallibile, che quando affronta certi argomenti abbia sempre ragione o che Gomorra debba piacere per forza. Tutt’altro. Dobbiamo uscire dall’idolatria, dal fanatismo, a patto però che si esca anche dall’avversione preconcetta che si trova all’altro estremo. E dobbiamo riconoscere i meriti che vanno riconosciuti. “Gomorra”, con le sue pagine, ha dato un contributo fondamentale, ha prodotto conoscenza e una maggiore attenzione a quella realtà, dando più forza anche a magistrati e inquirenti che hanno finalmente operato fuori dall’isolamento e dal silenzio pericoloso che li circondava.

Tutto ciò non impedisce di concordare con chi dice che Napoli, Caserta, la Campania, così come valeva per Palermo e per la Sicilia degli anni ’80, non siano solo quello che si racconta nel libro o nella serie tv, ma siano anche altro, siano arte, cultura, solidarietà, legalità, impegno, lavoro, onestà, dignità, lotta antimafiosa. Facciamolo sempre, ma senza mai negare la realtà che quelle parole e quelle immagini narrano. Perché esiste davvero ed è un problema serio. I quartieri militarizzati, le vedette, le piazze di spaccio, il racket, gli assassinii, le vendette trasversali, le faide crudeli sono verità che anche i fatti di cronaca più recenti dimostrano.

Le conversazioni agghiaccianti tra il boss Antonio Genidoni e il killer Emanuele Esposito sulla volontà di uccidere anche donne e bambini del clan rivale Vastarella, per vendicare un omicidio, danno l’idea di come la finzione cinematografica non sia affatto diversa dalla realtà a cui si riferisce, anzi, a volte la realtà riesce persino a superare la finzione in termini di crudeltà. Allora, smettiamola con le ipocrisie, le antipatie personali, le polemiche sterili, le congetture. Gomorra, che piaccia o no, ha raccontato una verità nascosta e creato coscienza. Al punto che possiamo spingerci a dire che questi dieci anni, senza quel libro, forse sarebbero stati peggiori. E non solo per Napoli e Caserta.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org