Cooperazione, quanto volte abbiamo sentito questa parola? Spesso accompagnata da altre, come “internazionale allo sviluppo”, “umanitaria”, “tra Stati”, essa è ormai un vocabolo, o meglio, una espressione facente pienamente parte del vocabolario mediatico contemporaneo. Oggi, con voi appassionati lettori, vorrei prima mettere un po’ d’ordine in termini nozionistici, o più semplicemente enciclopedici, per poi avanzare alcune riflessioni sopra la ratio di alcune correnti di pensiero della cooperazione, più o meno sistemizzate, attualmente in vigore.

Una prima divisione va fatta tra cooperazione governativa e non governativa. La sostanziale differenza è che la prima, i cui soggetti sono gli stati del “primo mondo”, trasferisce risorse ai PVS (Paesi in via di sviluppo), tutto tramite corsie istituzionali. Nata durante le prime conferenze delle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra, si è posta come scopo, appunto, la cooperazione tra stati del nord e del sud. La seconda, la non governativa, è la rappresentanza della società civile, che lavora a stretto contatto con la prima in termini tecnici ma anche di sistema di valori.

Altra divisione importante è quella tra “Aiuto allo sviluppo” e “Aiuto umanitario”. La prima è una cooperazione tesa a combattere problematiche a lungo termine, la seconda nel breve, vedi il recente terremoto in Ecuador, un caso di aiuto umanitario internazionale. Nell’aiuto allo sviluppo, spesso rientrano anche le operazioni militari, o meglio, il supporto militare. Circa l’85% dei fondi proviene dall’aiuto pubblico allo sviluppo, ovvero la cooperazione governativa, il resto dalle ONG. Inoltre, essa può essere bilaterale, il 70% degli aiuti è chiamato così, vale a dire direttamente da un paese all’altro. Il restante 30% è di carattere multilaterale, ovvero gli aiuti vanno verso istituzioni di cooperazione internazionale come la World Bank e le Nazioni Unite che redistribuiscono. Infine, abbiamo la cooperazione multilivello, cioè quella verticale (dal governo all’ente locale) e quella orizzontale (istituzioni pubbliche che si relazionano con ONG oppure imprese private).

Spero che questo breve quadro possa aiutarvi un po’ meglio a comprendere il sistema della cooperazione. Le ONG, le famose ONG che tutti conosciamo, dalla nomea nobile, hanno un ruolo, purtroppo, marginale, in termini di apporti economici e decisionali. La loro forza, però, sta nel supporto valoriale alla cooperazione. Mi spiego. La presenza di ONG in una situazione di guerra è sicuramente decisa e organizzata dalla cooperazione governativa, come per esempio in Afghanistan, dove solo grazie alla presenza dell’esercito degli alleati molte onlus potevano operare, tranne nel caso delle più impavide, rimaste lo stesso anche dopo il ritiro parziale degli USA. La presenza delle ONG permette azioni come il controllo sui diritti, informazione e giornalismo libero, aiuto alle parti di popolazione più colpite, documentazione e molto altro.

Ora, andando un po’ più a fondo nel concetto di cooperazione, vediamo quali direzioni esso può prendere. All’interno della cooperazione, come abbiamo detto sopra, possono entrare anche i privati. E infatti ci sono entrati. Oggi si possono incontrare partnership di ogni genere, tra ONG, privati, istituzioni pubbliche ed internazionali. Si segue un po’ il concetto dell’idea che funziona meglio. All’interno di questa rete complicata di relazioni è facile trovare progetti che, seppur di natura umanitaria, dunque con scopi del tutto curativi in termini di povertà, fame, sfruttamento minorile o altro, si trovano fianco a fianco con imprese multinazionali che usano il campo per vendere i loro prodotti, appunto a prezzi “da terzo mondo”. Educazione diventa facilmente digitalizzazione, per esempio.

Ora qui il confine etico è sottile se non invisibile. E ogni critica in bene e in male trova, almeno per ora, le sue ragioni, dato che i risultati di questi progetti ancora non si vedono in termini storici. A grandi linee si potrebbe dire che esiste una cooperazione che “occidentalizza” e una che salvaguardia le culture e le tradizioni; parliamo solo di quelle a lungo termine, lascio volutamente fuori la cooperazione d’emergenza che, a mio avviso, è incriticabile, data la necessità di un ospedale da campo o di viveri in Siria, in Libia, in Qatar, in qualsiasi posto dove innocenti muoiono per guerre di denaro o in zone colpite da calamità.

La cooperazione che occidentalizza è spesso impura, dove il verbo occidentalizzare lo uso per esprimere il becero concetto del rendere il cittadino del terzo mondo un po’ meno povero al fine di permettergli di consumare un po’ di più. Impura in termini democratici, di diritti umani, impura perché non guarda le origini dei popoli ma preferisce mettergli in mano un Nokia che in Europa non si venderebbe più. Impura perché ha come cieco obiettivo quello di tirare fuori dalla povertà un gruppo di persone. Ecco, ritorniamo al confine etico invisibile. Tirare fuori un popolo, o una comunità dalla povertà eliminando ogni sua identità e origine. Eliminando le sue abitudini alimentari, religiose, ambientali e sociali. Senza poi mai guardare i problemi di corruzione che affliggono buona parte degli stati del terzo mondo.

Una forma di egoismo cooperativo, umanitario, quell’egoismo di cui il progresso occidentale si macchia troppo spesso. Salva la condizione individuale di una comunità, dando del reddito e di conseguenza dei prodotti da comprare con quel reddito, senza per questo incentivare la soluzione dei problemi sui beni comuni, come l’acqua, la partecipazione democratica e tanto altro. Prepotenza culturale. Ecco, criticare questo modello ha sempre fatto andare in rabbia i paladini del bene occidentale, quei paladini del progresso, funzionari di grandi istituzioni internazionali che poi ritrovi negli scandali come “Oil for food” o quando senti che tante grandi ONG spendono troppo di più in marketing che in altre voci di bilancio. E mi fermo qui, perché generalizzare non va bene, e nel campo della cooperazione non bisogna farlo né in bene né in male. Anche perché farlo in bene è più facile che farlo in male.

Bisogna essere radicali e ciò richiede di essere molto precisi. Io sono per la cooperazione di Maxima Acuna, contadina analfabeta di Cajamarca, premiata con il premio Goldman per l’ambiente (anche chiamato Nobel dell’ambiente) a San Francisco, per essersi battuta contro i colossi delle miniere, qui nel nord del Perù, da sola, difendendo la sua terra e la sua acqua. Sono con Berta Caceres, leader indigena attivista per l’ambiente, barbaramente assassinata pochi mesi fa in Honduras, suo paese natale e di lotta. Sono con Amnesty International, che va nelle favelas del Sud America a parlare di diversità sessuale o difende Regeni, vittima di un intrigo internazionale. Sono con MSF, che viene bombardata perché aiuta senza chiedere al ferito da che parte sta, come il giuramento di Ippocrate vuole. Sono con quelle piccole onlus, autofinanziate, di tutto il mondo che portano avanti il loro ideale di salvaguardia di identità e cultura. Che tante volte finiscono in battaglie contro i mulini a vento.

Sono con quei frati comboniani che di conservatore non hanno nulla se non lo spirito di lotta e di povertà autoimposta. Sono con quelle femministe, che ironicamente chiamo disperate, perché essere femminista in Perù ti porta sull’orlo della disperazione. Sono con quei politici locali che si battono come delle zattere nella marea di corruzione. Sono con loro perché con loro bisogna essere, perché solo chi è con gli ultimi merita di chiamarsi cooperante. Molti altri adorano vanitosamente l’appellativo ma sono solo le postmoderne maschere del capitalismo della vergogna. Quel capitalismo che cerca l’immagine artificiale per nascondere il fetore. Quel fetore del latte in polvere, che poi, come una droga, costringe i neonati a continuare a farne uso preferendolo a quello materno, come è successo in Pakistan o in Africa negli anni Settanta.

Sono contro la finta business ethic dell’ENI, che sul suo sito parla di ambiente meglio di Greenpeace, salvo poi avere una coscienza aziendale più nera del suo stesso petrolio. Come la Barrick Gold, che qui, nel nord del Perù ha una delle più grandi miniere del mondo, La Laguna, e sul suo sito scrive “Our vision is the generation of wealth through responsible mining – wealth for our owners, our people, and the communities with which we partner” (La nostra visione è la generazione di benessere attraverso un’estrazione responsabile – ricchezza per i nostri proprietari, per la nostra gente, per le comunità con cui collaboriamo). Quando le comunità qui intorno, da quando sono arrivate le miniere, sono piene di sfruttamento della prostituzione, narcotraffico, criminalità. Barrick si sarà dimenticata del mercurio nell’acqua potabile, comprovata da istituti indipendenti, forse perché non saranno i figli di qualche azionista di Toronto a berla ma solo quei bambini a cui non puoi nemmeno proibire di bere dalle fontane, dato che non hanno i soldi per l’acqua in bottiglia.

La rabbia ti sale, e non per l’ingiustizia che si vede ma per l’impotenza con la quale, dopo che inizi a lottare, devi fare i conti. Quella sensazione di solitudine ed impossibilità di cambiare le cose, non solo qui in Perù, ma nel mondo. Spesso si lavora per guadagnare 1 centimetro e il giorno dopo, un’ordinanza sindacale, il disinteresse della gente, la mancanza di mezzi, ti fanno fare 3 metri indietro. Perché quando chiedi a un minore cosa pensa del lavoro minorile in miniera, e ti risponde che va bene perché si guadagna di più, non sai nemmeno più tu contro cosa combatti.

Concludo con un auspicio. Ciò che manca, da troppi anni a questa parte, è l’unione tra chi, in parti diverse del mondo, da Lampedusa a Cajamarca, da Nairobi a Manila, lotta per la libertà e l’autonomia delle culture. Ci manca questo, perché senza un ideale socialista siamo rimasti privi di quella corda a cui tutti eravamo aggrappati. Inutile negarlo. Se da un lato la lotta ci è d’obbligo sul campo, dall’altra siamo obbligati a farla sui tavoli tornando ad unirci. Embrioni di speranza esistono. Occupy Wall Street, il World Social Forum, le fondamentali teorie della decrescita felice di Serge Latouche, gli illuminanti avvertimenti di Chomsky sul potere moderno e mediatico e tanti altri che credono ancora che “un altro mondo è possibile”. Noi abbiamo scelto i mulini a vento come nemici perché “sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte”.

Io sono con Luciano De Crescenzo, che parlando della sua Napoli morente disse:

“In parole povere io mi rifiuto di credere che non sia possibile migliorare le condizioni di vita di un popolo senza dover forzatamente rinunciare ai contenuti umani della sua maniera di essere”.

Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org