Quando il dramma e lo shock si consumano nel cuore dell’Occidente, come nel caso più recente di Parigi, l’emotività diventa la nota che risuona dentro ogni parola e ogni singola iniziativa. La gente comune viene invasa dalla frenesia di sentirsi parte di un cordoglio generale che travalichi la sfera della propria intimità, con il web che amplifica questa abitudine, soprattutto attraverso i social, che forniscono persino funzioni capaci di farci indossare una bandiera o listarci a lutto con un click. Un’ondata di partecipazione generale che investe tutti, sia quelli in buonafede sia i bugiardi, cioè coloro che, magari, qualche ora prima del momento della commozione e delle parole contro la barbarie, inneggiavano a soluzioni naziste contro una massa di esseri umani in fuga dall’inferno o vomitavano ignoranza disumana nei confronti di chiunque potesse rientrare in una qualsiasi categoria definibile con un “loro”.

È la contraddizione della rete, lo specchio della percentuale elevata di ipocrisia che pervade la nostra società. Un problema che non sarebbe particolarmente preoccupante (gli imbecilli sono esistiti in ogni epoca) se non fosse che esso stesso è espressione di una logica politica che discrimina tra le vittime. Una politica razzista che governa e prende decisioni. E allora la questione diventa seria. Perché gestire un momento come quello attuale, facendo leva sull’emotività o utilizzandola per giustificare scelte irresponsabili può avere effetti devastanti su tutti noi. Hollande ha dichiarato guerra al terrorismo, ha promesso vendetta, ha chiesto modifiche alla Costituzione francese per poter ampliare lo stato di emergenza e ridurre certe libertà fondamentali; Putin ha esortato i paesi europei, nordamericani e mediorientali ad allearsi contro il nemico comune, mentre l’Unione Europea ha accordato appoggio militare alla Francia.

I raid sono stati intensificati, le bombe sono state sganciate. E porteranno morte e un’altra inutile spirale di odio. Il tutto è stato pianificato e deciso in pochissimi giorni, la risposta doveva essere immediata, perché solo sfruttando una cittadinanza in preda alle emozioni si può giustificare una strategia poco utile e potenzialmente dannosa. Non c’è bisogno di scomodare teorie complottiste (in giro se ne trovano di assurde e contorte come le menti che le partoriscono) per esaminare tutti gli errori che hanno prodotto la situazione odierna. Errori risaputi, arcinoti, che affondano nel passato più o meno recente, nelle scelte di politica estera dei paesi occidentali, a partire dal rovesciamento dei regimi di Saddam in Iraq e di Gheddafi in Libia.

In pochi anni, sono stati polverizzati due stati che, con tutti i loro problemi interni, le contraddizioni e gli aspetti insopportabili (specialmente sul piano dei diritti umani), erano a guida laica, con governi che non lasciavano spazio ai fondamentalismi e con i quali una politica più illuminata avrebbe potuto continuare a trattare, provocando meno danni di quelli prodotti con i rovesciamenti violenti a suon di bombe. Perché una democrazia falsa e senza controllo è forse più pericolosa di una tirannia. L’IS è figlio soprattutto della cocciuta guerra e degli interessi degli USA (e dei suoi alleati) contro l’Iraq di Saddam Hussein. A ciò si aggiunga la pessima gestione della questione Assad, sulla cui soluzione, fino a prima del 13 novembre, le posizioni mediatrici di Russia e Iran, sono state colpevolmente ignorate. Lo Stato Islamico, grazie alla libertà di agire in Siria ha esteso enormemente il proprio potere.

Adesso la paura dell’IS, lo stesso mostro che da anni semina orrore tremendo in quei territori che sono lontani dalla sensibilità e dal cordoglio dei governi e dei cittadini occidentali, è entrata nelle nostre case. Siamo finalmente (o momentaneamente) usciti dall’indifferenza, ci siamo accorti, solo perché abbiamo sentito la morte a due passi, di quanta spietatezza sono capaci questi gruppi terroristici figli anche (ma non solo) delle politiche contro cui alcuni manifestavano. Gruppi finanziati anche dalle nostre aziende produttrici di armi, gruppi a cui l’Arabia Saudita, gli Emirati e altri paesi dell’area assicurano protezione e sostegno (non è un caso che non una parola di sincera condanna sui fatti di Parigi è giunta dai rappresentanti di quei paesi). Sono cellule impazzite che colpiscono a tradimento, ovunque, dal Libano allo Yemen, dall’Egitto all’Iraq, alla Francia: un esercito internazionale che si forma nei campi di addestramento, dove apprende crudeltà, rancore, odio, freddezza, sadismo.

Assassini spietati che una studiata propaganda eccita, arma e lancia contro le popolazioni inermi o contro gruppi di resistenza che provano ad arginarne l’avanzata, spesso solitari ed eroici come i curdi di Kobane. L’IS è un esercito sparso, che si collega ad altre organizzazioni in altre nazioni (vedi Boko Haram in Nigeria, di cui il mondo sembra essersi dimenticato) e che può contare anche su isolati emulatori, fanatici di ogni sorta pronti a entrare in azione; insomma un corpo flessibile e spietato che poteva essere fermato sul nascere (non dimentichiamolo mai) e che invece è stato lasciato agire dai governi occidentali, in nome di precisi interessi di parte. Adesso è complicato estirparlo e serve a poco puntare sull’odio e sulla vendetta. Le emozioni non risolvono i problemi.

Un’alleanza militare che, come retroterra culturale e base di consenso, si avvale della psicosi collettiva, è destinata nuovamente a non ragionare in maniera adeguata sulle conseguenze. Le armi da sole non possono fermare il pericolo. Anzi. Rischiano di ampliare ulteriormente il fronte di una guerra atipica che, questa volta, non consente previsioni di alcun genere sugli esiti. Sarebbe bene che la Francia questo lo capisse e che lo comprendessero anche Putin e Obama. Perché la guerra globale non è un gioco, ma un vero incubo. E di incubi ne abbiamo vissuti già troppi in questa prima porzione del nuovo millennio.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org